Quando si dovette cercare un interlocutore per la sua ormai matrigna
Natura, anche Giacomo Leopardi ritenne che non ci fosse in giro nulla di
più appropriato che un islandese.
Non si trattò di una scelta esotica tra altre, dell'abitatore di
generici paesi lontani, ma la selezione ragionata del rappresentante di
una popolazione che da centinaia di anni vive, o sopravvive, più o meno eroicamente, in uno dei rari posti sulla terra
in cui la Natura si manifesta interamente nemica dell'uomo e, soprattutto, massimamente indifferente al suo destino mortale.
Ovviamente Leopardi, che più del selvaggio borgo natio e qualche città
patria non aveva visto, in Islanda non era mai stato, ma era rimasto
probabilmente impressionato dalla lettura dell'Histoire de Jenni
di Voltaire, nella quale si racconta appunto di quella popolazione che
lassù al Nord vive tra freddi glaciali e fuochi vulcanici, tra forze
naturali così estreme da poterne facilmente dedurre che assolutamente
no, la terra tutta, e non solo quell'isola, non è il regno concesso in
uso esclusivo all'uomo da qualche benevolo dio antropomorfo e
antropofilo. Se gli uomini si estinguessero, la terra continuerebbe a
girare e l'Islanda a essere quella convulsione di forze fisiche qual è.
Nel tempo l'Islanda è diventata un luogo simbolo, un luogo che per la
sua eccentricità è in grado di significare obliquamente il rapporto
contraddittorio che lega l'uomo alla natura. Nei secoli innumerevoli e a
volte intrepidi viaggiatori vi si sono recati contribuendo a costruire
un'immagine del paese oggi vendibile come cartolina ai numerosi turisti
internazionali, che ora vi possono arrivare con agio su voli nazionali
al riparo da incerte navigazioni su mari burrascosi.
Eppure, nonostante la modernità, ancora oggi, come ieri, ciò che si
presenta allo sguardo è lo stesso paesaggio inospitale, privo di
vegetazione, vuoto. Senza nulla di particolare da vedere, ma che non
vuol dire senza nessun interesse, anzi.
In Viaggio in Islanda (Quodlibet Humboldt) Claudio Giunta e
Giovanna Silva ci aprono una serie di viste veramente affascinanti su
quel paese. Giunta tenendo un taccuino che mescola osservazione di
viaggio, storia recente e antica, ritratti d'incontri, letteratura,
meditazione, e Silva scattando foto frontali di cui forse Leopardi
avrebbe detto che l'accento è messo sull'assenza umana.
E del resto non è così difficile capirlo. In un'isola così poco
popolata (320 mila abitanti, di cui due terzi concentrati a Reykjavik e
dintorni) poco antropizzata, tutto appare nella sua nuda visibilità.
Quasi fosse la Natura a guardare l'uomo che si avventura su quelle lande
desolate, e non il contrario.
Del resto per l'isola del Nord l'uomo è solo un affare recente. Come
ricorda Giunta, quando gli europei arrivarono in America, ci trovarono
gli "indiani". Quando arrivarono in Australia, gli aborigeni. Invece i
primi anacoreti irlandesi che sbarcarono sull'isola ghiacciata intorno
all'ottavo secolo non vi trovarono niente di niente, nessuno presso cui
riconoscersi. Solo deserti ghiacciati, lava, geyser, ciò che si può
vedere ancora oggi.
Gli islandesi, ci informa Giunta, hanno una curiosa parola: gluggavedur,
che vuol dire pressappoco "giorno da finestra", indicando quelle
giornate in cui magari c'è pure il sole fuori, ma è meglio stare a
guardare da dietro la finestra perché anche se non si vede, la
temperatura è rigida e il vento soffia tagliente senza incontrare nessun
ostacolo. Ecco, l'uomo che ci passa in Islanda si sente sempre in un gluggavedur.
Eppure questo è solo un lato della contraddittoria relazione che si può
tessere con la natura in certe condizioni. Quando Roger Caillois fece un
viaggio in un altro luogo estremo come la Patagonia, confessò in un breve ma capitale scritto, Patagonie appunto,
di aver colto proprio allora, di fronte al terribile spettacolo delle
forze cosmiche, la nobiltà della vicenda umana, l'eroicità di un essere
consegnato alla solitudine e all'insensatezza dell'universo, eppure
costruttore di civiltà e di senso, di storia. Forse, come Leopardi,
anche Caillois non è mai stato in Islanda, ma certamente avrebbe potuto
trarre spunti interessanti dalla storia particolare di quel popolo
isolato tra il ghiaccio e il fuoco del profondo della terra. Per
cogliere la complessità di tale storia e l'orgoglio secolare di un popolo così particolare si può leggere oggi La base atomica,
pubblicato dal grande scrittore islandese Halldòr Laxness, premio Nobel
nel 1948, appena uscito da Iperborea. Si tratta di un romanzo politico,
che ambientato nel bel mezzo della Guerra fredda, nell'immediato
dopoguerra, cerca il bandolo di un'identità nazionale tra le radici che
affondano nelle antiche saghe e un futuro in cui tutto è in vendita,
compresa l'Islanda, che i politici voglionoappunto concedere agli
statunitensi per una base atomica. Come può, si chiede Laxness, la comunità islandese che non si è mai
sottomessa neanche alla natura, consegnarsi al dio denaro disgregandosi e
perdendosi? L'islandesità profonda, antica ma anche moderna, è ben
rappresentata nel romanzo dall'anziano padre della protagonista, sperso
ancora nelle valli del Nord, e che leopardianamente dichiara che «il
nostro dio è quello che rimane dopo aver enumerato tutti gli dèi e
averli scartati: questo no, quell'altro no...».