Dispiegando la cartina stradale dell'Islanda si vede un enorme
territorio tagliato da pochissime strade. Al centro il nulla e
tutt'intorno la statale numero uno che unisce paesi e cittadine la cui
dimensione è rappresentata con il consueto affastellarsi di
rettangolini. Una volta saltati nella mappa, con le ruote sulla corsia
nerissima e deserta della maggiore arteria del paese, ci si accorge che a
ciascuno di questi quadratini a volte non corrisponde un villaggio, un
quartiere, bensì una casa, forse due. I distributori di benzina sono
riportati uno ad uno, così come i bivacchi prefabbricati depositati ai
bordi della carreggiata per chi viene sorpreso dalla tempesta.
È un'isola da colpo di fulmine (in tutti i sensi). Ci si innamora in un
baleno di questo nulla, di questa solitudine sotto un tempo
indiavolato, dei paesaggi vulcanici, fumanti, lichenici, ghiacciati,
solcati da fiumi tramutati in lingue d'argento dalla luce obliqua delle
alte latitudini. Con tutte le conseguenze dell'innamoramento. «Stare a
lungo soli dentro un panorama del genere amplifica le sensazioni, fa
diventare ciclotimici (e anche un po' molesti): basta un cenno di
arcobaleno sulla spianata deserta per passare istantaneamente dalla
malinconia a un'euforia quasi alcolica» scrive il nostro collaboratore,
l'italianista Claudio Giunta, in Tutta la solitudine che meritate, un libro di viaggio illustrato dalle foto di Giovanna Silva.
«Non pensavamo di venire a vivere qui» gli racconta a un certo punto la
donna che gestisce un hotel ricavato dal relitto di una fabbrica per
lavorare le aringhe. «Qui, significa - annota l'autore - il punto più
interno di un fiordo a circa cinquanta chilometri di distanza dal
villaggio più vicino. Com'è, vorrei chiedere, com'è vivere in un posto
immobile, un posto in cui, a parte l'approfondirsi impercettibile delle
rughe, niente vi dice che il tempo sta passando, perché le stagioni si
confondono, a volte nevica anche a giugno, e le persone e le cose che
avete davanti sono sempre le stesse, si butta via il meno possibile (la
mobilia delle camere ha gli anni dell'albergo, forse di più), e insomma
il passare del tempo sembra assomigliare davvero alla distentio animi di Agostino: non un dato ma una dinamica, un'evoluzione interna all'io, che non ha vero rapporto con ciò che accade fuori...».
Le divagazioni filosofiche e letterarie che Giunta cala con naturalezza
nel racconto hanno un po' lo stesso effetto degli arcobaleni che,
simultaneamente, spuntano ovunque in Islanda nei repentini passaggi da
pioggia a sole, uno dentro l'altro o sparsi qua e là nelle valli e sulla
linea dell'orizzonte: fanno percepire una nuova profondità del
paesaggio. Nient'affatto spocchiose, mai retoriche, rendono questo testo
molto diverso e soprattutto più piacevole e interessante dei soliti
libri di viaggio.
Del resto l'autore ha a sua volta scelto una guida d'eccezione, il
Nobel islandese Halldòr Laxness, cui dedica un capitolo. «Uno dei geni
della letteratura mondiale - ha affermato Salvatore Scibona su
«Domenica» -. Leggerlo è un'esperienza che non suscita ammirazione, ma
gioia». E ancora: «Non mi viene in mente nessun altro scrittore al quale
riesca più naturale il trucco di sfruttare l'umorismo per fare spazio
al dolore: nelle mani di Laxness, più che di una tecnica, si tratta di
una legge universale».
Il dolore, la sofferenza dei figli di una natura «matrigna» (come la definisce nella Ginestra l'autore del Dialogo della Natura e di un islandese, Leopardi) ricorrono nei romanzi di Laxness a partire dal suo capolavoro, Gente indipendente
(Iperborea), e fanno da monito a Giunta che, pur vittima della malia di
questi luoghi belli e dannati (il titolo del primo capitolo è L'amore per l'Islanda),
quando racconta i mille anni successivi all'insediamento - in cui non
accadde nulla - complice anche una buona dose di ironia, resiste al mito
del buon selvaggio e a un ingenuo elogio della solitudine in cui cadono
molti viaggiatori odierni e d'antan. Questa non era la solitudine
agiata di intellettuali come Thoreau o Orazio: «Thoreau sa, pensa,
studia; Bjartur (l'allevatore protagonista di Gente indipendente,
ndr) a malapena sente, e reagisce alla vita come si reagisce a uno
schiaffo: stringendo i denti o colpendo a sua volta- e i colpiti sono i
figli, la moglie, gli animali. Bjartur è solo per necessità, non per
scelta», scrive Giunta, e aggiunge: «La solitudine di Bjartur non è il
riflesso della sua diffidenza nei confronti della civiltà, ma del suo
non essere mai stato civilizzato».
In meno di cento anni molto è cambiato in Islanda e se il paese non è
più (apparentemente) ricco come lo era fino alla bancarotta del 2008, è
un luogo oggi civilissimo dove si vendono 400mila biglietti teatrali
l'anno su una popolazione di 300mila persone: «tutto questo amore per
l'arte è ammirevole, e fa sì che le vostre conversazioni con gli
islandesi siano interessanti, profonde e inaspettatamente facili, perché anche loro hanno letto quel
libro che vi piace tanto, anche loro hanno visto quel film che voi
amate, anche loro hanno un'opinione sulla musica concreta». Spassoso, appassionato, Giunta sa portare alla
luce l'originalità e le tante sfumature di quest'isola alle porte
dell'Artico firmando una guida che è chiara come un saggio, coinvolgente
come un romanzo e, a tratti, illuminante come una poesia.