«Una intelligente e acuta dichiarazione d'amore al vecchio medium della letteratura». Così il recensore della Neue Zuercher Zeitung definiva il libro che ha traghettato Sigrid Weigel, germanista di Berlino, femminista e critica militante, nel vasto territorio degli
studi culturali. Quel libro, del 2004, aveva un titolo ambizioso, Literatur als Voraussetzung der Kulturgeschichten
(Letteratura come presupposto delle vicende culturali) e, contando
sulla leggibilità del mondo, si affidava a una caparbia declinazione di
segni, di quelli conservati nella pagina scritta, ma anche di quelli
consegnati alla raffigurazione - topografie, foto, esempi di arte
figurativa - alla ricerca di nuove piste nella interpretazione di autori
irrinunciabili nella coscienza della modernità - da Benjamin, a Goethe e Kleist, a Shakespeare. Nasce dalla abitudine di collegare saperi anche il suo lavoro su Benjamin titolato Walter Benjamin La creatura, il caso, le immagini,
uscito in Germania nel 2008 e pubblicato ora da Quodlibet nella
inappuntabile traduzione di Maria Teresa Costa (pp. 300, € 24,00).
Pensare e lavorare per varchi, cogliendo passaggi fino ad ora
trascurati dalla critica, chiamare a raccolta frammenti e dominarli con
letture ampie e golose è la suggestione di questo libro dedicato al
filosofo berlinese: dieci saggi fascinosi, rapsodici a volte, che si
dilatano in percorsi suggestivi, unendo come la corda di un equilibrista
approdi diversi - nel rischio, nella perizia e nella sorpresa di un lettore sapientemente disorientato. Un filo rosso
tematico, ampio e accattivante, scorre tra i vari capitoli. Si tratta
della «dialettica della secolarizzazione», titolo di un progetto
accademico berlinese di cui la Weigel è stata coordinatrice e che aveva
l'obiettivo di cogliere la sopravvivenza nascosta e deformata di istanze
religiose in un'epoca dominata dalla sfida (dalla rinuncia o dalla violenza) al "sacro". In questa
costellazione Benjamin, pensatore ostile alla alternativa tra
secolarizzazione e rinnovamento religioso offre materiali particolarmente preziosi: sempre aperto è nelle sue posizioni sparse ed
eterogenee il confronto tra le dinamiche del profano e l'intensità
messianica, evidente l'ambizione di continuare a fecondare nel pensiero e
nella scrittura l'eredità della teologia (e quella biblica in modo
tutto particolare) sia pure in echi spiazzanti e sfuggenti.
«Al centro di questo libro - scrive Sigrid Weigel - sta il
riconoscimento da parte di Benjamin del fatto che non pochi concetti del
pensiero europeo, e soprattutto i più significativi - come quelli di
vita, uomo e giustizia - provengono dalla tradizione biblica». Un
riconoscimento che si radica nella volontà che le tracce della Scrittura
resistano ai movimenti convulsi e spesso disorientati della
secolarizzazione e si proietti verso un legame - così afferma con
autorevolezza Stéphane Mosès - con la rivelazione biblica in un mondo
senza Dio.
Oscuro è in Benjamin il luogo della sopravvivenza: non sarà nella
teologia con la sua retorica insediata nella storia e neppure nella
filosofia condannata da Blumenberg a riempire il vuoto lasciato
dall'allontanamento del divino.
Weigel ne cerca inizialmente le tracce in quel confronto tra «il sacro» e
la «creatura» che ispira scritti rilevanti: lo studio sul dramma
barocco, le pagine su Kraus e il saggio sulla critica della violenza -
in particolare sul senso del dogma della sacertà della vita e su quelle
note sulla "violenza divina" in cui Benjamin si chiede cosa significa
prescindere «in casi straordinari» dal comandamento divino di non
uccidere. Sono pagine di estrema ricchezza di pensiero e di emozioni
che, partendo dal confronto con Schmitt giungono a coinvolgere
l'attualità - il dibattito sulla guerra santa, sugli attentatori, sugli
Stati canaglia che, oltrepassato l'ambito della teoria politica evocano
modelli teologici o religiosi.
Più che nelle considerazioni "sociali", Sigrid Weigel coglie la
resistenza della parola biblica soprattutto nei suoi testi di critica
letteraria, quelli su Kraus, su Kafka, sulle Affinità elettive o
quelli assai più problematici su Brecht; la scorge nella poesia, lì dove
si mettono in scena sfondamenti e trasfigurazioni e dove «qualcosa, al
di là del poeta irrompe nella parola poetica». Infine la cerca «nel suo
pensiero per immagini, nelle sue immagini linguistiche, di pensiero e
dialettiche», un ambito che illumina gli aspetti immaginali della
scrittura benjaminiana e ricostruisce la quadrena immaginaria del
filosofo: «Mentre la lingua poetica è rilevante per la sopravvivenza
della lingua biblica, nelle immagini si tratta della sopravvivenza di
significati rituali, sacri e magici. Se la religione sposta il regno del
sacro tra le nuvole, nelle nuvole dipinte dagli artisti diventa
percepibile l'apparire di questo "regno sacro"».
La riflessione sulla dialettica della secolarizzazione indietreggia
(senza mai scomparire), per fare spazio al tema della traduzione (per
Benjamin e di Benjamin) e, soprattutto, alla analisi delle immagini:
spezzoni di film, foto e frammenti di capolavori della pittura di tutti i
tempi sui quali Benjamin si sofferma (oltre i testi canonici, dedicati
rispettivamente all'Angelus novus di Klee e alla Melancholia
di Dürer). Sono prove del carattere caleidoscopico della scrittura di
Benjamin, alchimista della cultura, ma anche collezionista pronto a
salvare ciò che sta per scomparire, i «relitti di un mondo di sogni»
(scrive nel saggio sul Surrealismo), considerando il recupero come atto
di sabotaggio contro la manipolazione del presente e come retrospettiva
profezia.
Attraverso le immagini Benjamin instaura lo stesso rapporto alchemico
tra tradizione e contemporaneità che ritroviamo nei racconti radiofonici
ripubblicati recentemente dalla Bur con il titolo Burattini, streghe e briganti (per la cura sapiente di Giulio
Schiavoni). Sono scritti di «vigilanza laico-illuminista» e
antiautoritaria, eccentrici rispetto ai testi analizzati dalla Weigel,
ma che pure appaiono altrettanto ricchi di «speranza contro ogni
speranza», di mescolanze e montaggi, di elementi eterogenei assemblati
in un tessuto di descrizioni, visioni, esperienze dirette e riflessioni
che approdano infine all'assalto alla «fodera grigia del tempo». In
questo attraversamento di rovine che coinvolge in modo potente le
immagini (e il loro racconto) Weigel illumina ciò che, apparentemente
insignificante, può assumere un valore epistemologico mentre coglie «lo
sguardo fisiognomico» di Benjamin: «Non si esagera - scrive Weigel -
dicendo che incisioni, pitture e stampe di artisti formano una parte
costitutiva dell'epistemologia benjaminiana [...]. Benjamin predilige
infatti la contemporaneità alla continuità, la scena alla successione, i
gesti alle asserzioni, la somiglianza alla convenzione: in breve, le
immagini ai concetti».
Il confronto con i contemporanei si fa serrato: da contrapposizioni,
dialoghi o suggestioni emergono aspetti trascurati e affascinanti del
filosofo berlinese e un vivido quadro d'insieme della Germania
weimariana: da George con il suo circolo di sacerdoti della poesia e
cultori dell'oltreumano, a Schmitt con le sue prospettive di
secolarizzazione all'interno delle strutture di potere della modernità, fino ad Aby Warburg di cui l'autrice coglie inedite influenze su Benjamin.