L’ultimo volume edito da Humboldt Quodlibet è dedicato all’Islanda. Come
nei libri precedenti, anche in questo caso si è trattato di recuperare
una tradizione di fine Ottocento, aggiornandola al nostro vivere
contemporaneo: uno scrittore e un fotografo viaggiano insieme per
realizzare un reportage narrativo e iconografico. Gli autori di Tutta la solitudine che meritate
sono Claudio Giunta (testo) e Giovanna Silva (fotografie). Il titolo,
più che una minaccia o una conquista, è l’oggettiva condizione della
nazione che ha una densità abitativa media tra le più basse della Terra.
Giunta, autore del recente Una sterminata domenica. Saggi sul paese che amo
(Il Mulino, 2013) è un habitué dell’isola e questo ha giovato molto
alla compattezza e alla varietà del libro, che infatti è una via di
mezzo tra un’intelligente guida turistica colta e il reportage. Cosa
sappiamo dell’Islanda? Poco. A seconda dello stato d’animo, ripetiamo che è la nazione dove è nata
Bjork; che è molto a nord, e ogni tanto è sorteggiata nel medesimo
girone dell’Italia, alle qualificazioni dei Campionati Mondiali o
Europei, e ci sono queste partite giocate spesso all’inizio di giugno,
nel piccolo stadio di Reykjavik, con una luce quasi perpetua, oppure a
metà settembre, quando fa già fresco lassù e ti senti felice di stare in
maglietta a maniche corte, qualche migliaio di chilometri più a sud; e
che poi, certo, c’è stato il crollo delle tre banche principali in una
nazione di poco più di 300.000 abitanti, cosa che ha quasi significato
la bancarotta dell’Islanda, e l’alternanza, per un certo periodo nei
dibattiti italiani, tra Grecia e Islanda come spauracchio, anche se in
Italia ha sempre avuto più efficacia il paragone con la Grecia,
l’Islanda è troppo a nord e distante per potersi identificare con essa.
Questo elemento finanziario stride con l’immagine che si ha dell’Islanda
arrivando dal cielo. Ciò che vediamo mezz’ora prima dell’atterraggio è
ciò che avremmo potuto vedere parecchi secoli fa (se fossero esistiti
gli aeroplani e se non fossero esistiti gli allevatori norvegesi che nel
X secolo hanno abbattuto i boschi per riscaldarsi e avere pascoli per
le loro bestie).
Non è semplice abituarsi alla condizione di solitudine che ci pare
invidiabile nelle città dove viviamo (tanto da considerarci fortunati di
potere restare a casa e lavorare in agosto).
In Islanda lo spazio ha un
significato esatto, è consapevolezza estrema della paura che possiamo
provare trovandoci senza scampo, quando tutti i propri simili sono
scomparsi. “Dopo più di un’ora di strada sterrata sui fiordi, a quaranta
all’ora e con lo stomaco stretto perché non abbiamo incontrato, alla
lettera, nessuno, e a ogni tornante potrebbe rotolarci addosso un masso,
o potrebbe cominciare Un tranquillo week-end di paura con noi
come protagonisti”. In effetti è straniante, abituati come siamo al
paesaggio del finestrino da Strada Statale italiana.
Oltre a essere una guida di avvicinamento e conoscenza di una
nazione distante – l’Islanda è uno dei pochissimi Stati, assieme alla
Corea del Nord, a non avere alcun Mc Donald’s – Tutta la solitudine che meritate contiene anche un saggio intitolato “Il Grande Romanzo Islandese”, dedicato a Gente indipendente di
Halldór Laxness; “Un incontro in Islanda”, di Wystan Hugh Auden e Jean
Young; una conversazione tra Roman Signer e Barbara Casavecchia,
intitolata “Quando vado in Islanda viaggio. È stancante”.
Il motivo
centrale di questo documento di viaggio non è tanto lo sguardo equanime
quanto l’innesto tra micronarrazioni esperienziali e reportage
fotografico.
Una guida per luoghi di solito immaginati e intorno ai quali si
costruiscono sistemi di classificazione semplici: visite guidate sui
vulcani, soste in piscine calde e fumanti, un turismo dall’attività
apparente o, che è lo stesso, per frequentatori assillanti di arte
contemporanea. “A un certo punto scatta l’effetto accumulo, i reportages
dall’Islanda diventano un genere a sé stante e chi ci va non si
accontenta di descrivere la landa uniforme ma dialoga con la
bibliografia, cioè confronta le sue opinioni sulla landa uniforme con
quelle dei viaggiatori del passato.”
Tutta la solitudine che meritate inizia con un’ipotetica
risposta alla domanda: perché mai uno, venuto al mondo venti paralleli
più a sud, dovrebbe amare
l’Islanda?
Il punctum lo si può trovare anche
a un incrocio tra Hofsvallagata e Hagamelur, nella zona ovest di
Reykjavik, un minimarket nell’angolo opposto, “la sagoma da realismo
socialista dell’Hotel Radisson”, il mare, una macchia grigia, “senza
poetiche scogliere” poco distante. Nessun essere umano intorno “fatta
eccezione per due ragazzini che uscivano dal minimarket tenendo in mano
un cartoccio di plastica dal quale pescavano a turno non dei
cioccolatini, (...) ma dei rapanelli”. Vivere l’Islanda oscillando tra
la voglia di fotografare il paradiso e la tentazione di fuggire da un
eventuale inferno di freddo, ghiaccio, pericolosa solitudine, il secondo
lente d’ingrandimento del primo.
Le ultime tracce dell’eruzione dell’ Eyajafjioll del 2010 ricordano
“una polvere spessa, densa, che sporcava le mani, piena di piccoli
cristalli, schegge metalliche, sassolini: sembrava di mettere le mani
nelle ceneri di un cadavere”, ed è quando – come diceva Robert Walser –
metti il piede nella cenere, che quasi non ti accorgi di aver cavalcato
qualcosa.