La storia del progetto per il Centro di calcolo elettronico a Rho
(Milano) – al quale Le Corbusier lavorò dal 1959 al 1965 – s’intreccia
con uno dei capitoli più eroici della storia politica e industriale
italiana, quello della tentata conquista del nuovo mercato
dell’industria elettronica da parte dell’impresa di Adriano Olivetti.
Nel 1959 venne presentato il calcolatore ELEA 9003, primo computer
transistorizzato al mondo progettato dall’ingegnere Mario Tchou e nel
1965 venne messo in produzione l’Olivetti P101, il primo personal
computer disegnato da Pier Giorgio Perotto. Tra queste date, la
progettazione della nuova sede fu scandita da una serie di tragici
eventi: la morte di Adriano Olivetti nel febbraio 1960 e quella di Tchou
nel novembre 1961; oltre alla cessione nel 1964 del 75% della Divisione
Elettronica alla General Electric.
È all’interno di questa cornice che Le Corbusier diede forma al progetto
per la sede che avrebbe dovuto ospitare tutte le attività del gruppo
Olivetti impegnate nel ramo dell’elettronica. Si può misurare
l’ambizione industriale del progetto – che avrebbe dovuto essere
realizzato in tre fasi successive – anche solo tenendo conto del fatto
che i 3 grandi moduli quadrati degli spazi produttivi (105 x 105 m)
corrispondono ognuno alle dimensioni del Palazzo delle Assemblee di
Chandigarh alla cui realizzazione Le Corbusier lavorò nello stesso arco
di tempo (1958-63).
L’acropoli olivettiana, il monumento industriale il cui disegno era
stato affidato al più visionario architetto del Novecento, non era
costituito solo dai laboratori di ricerca e dagli spazi per la
produzione, ma anche da un moderno museo dell’elettronica la cui
realizzazione venne aggiunta nel contratto stipulato da Le Corbusier con
la Olivetti nell’ottobre del 1961. Il museo avrebbe dovuto diventare un
“vero laboratorio dell’elettronica, un mezzo scientifico di ricerca, di
risposta, di spiegazione ed espressione… Destinato ai visitatori, agli
ingegneri e agli impiegati”. Rispetto al Museé Imaginarie di André
Malraux basato sul solo mezzo fotografico, nel museo di Rho
l’elettronica avrebbe consentito di affrontare tematiche che andavano
dalla tecnologia alla sociologia, dall’economia all’etica elaborando in
modo automatico con grande rapidità una enorme quantità di dati.
Sono gli anni in cui, prima con il padiglione Philips (1958) e poi con
il Museo della Conoscenza a Chandigarh (1959), Le Corbusier comprende
l’enorme importanza acquisita dall’elettronica nel rivoluzionare tutti
gli ambiti della società umana, da quello industriale e produttivo a
quello culturale e artistico. Su questo punto l’intesa con Roberto
Olivetti (il figlio di Adriano) fu perfetta. Si pensi al sostegno dato a
Bruno Munari, consulente di Olivetti, per la mostra milanese sull’Arte
Programmata (1962) come anche al coinvolgimento dello stesso Roberto
Olivetti da parte di Le Corbusier nella realizzazione del Museo della
Conoscenza a Chandigarh (vedi Gargiani-Rosellini, 2011).
Il progetto per Rho è stato presentato anche in occasione della mostra
romana del MAXXI curata da Marida Talamona, “L’Italia di Le Corbusier”
(nell’ottobre 2012), ma la scrupolosa e accurata ricostruzione delle sue
complesse fasi di progettazione, di cui nell’Oeuvre di Le Corbusier è
pubblicato il solo secondo progetto, viene presentata adesso per la
prima volta nel libro di Silvia Bodei (edito da Quodlibet). Bodei
riprende la tesi di dottorato discussa nel 2010 presso la Universitat
Politècnica de Catalunya. Il progetto preliminare (aprile-maggio 1962),
primo progetto (giugno 1962), il secondo progetto (ottobre 1962 e maggio
1963) e il terzo progetto (novembre 1963) sono stati analizzati alla
luce degli impegni che in quegli anni affollavano i tavoli da disegno
dello studio di rue de Sèvres (di particolare importanza il rapporto con
l’altro grande progetto italiano, l’Ospedale di Venezia del 1963);
della continuità con alcune soluzioni formali che si ripropongono a più
riprese nell’opera di Le Corbusier (significativa l’analogia messa in
luce con il Plan Macià di Barcellona del 1933); come anche della ricerca
architettonica coeva (in particolare i rapporti con il Mat-building del
Team X, da Shadrach Woods a Kisho Kurokawa, e la ripresa delle
strutture di Riccardo Morandi per l’aeroporto di Roma).
Il ridisegno delle tavole d’archivio compiuto dall’autrice del volume
permette un più comodo lavoro di comparazione tra le diverse soluzioni
progettuali: l’abbandono del sistema a setti per le unità degli spazi
produttivi a favore di una pianta libera su pilastri; l’introduzione dei
volumi iperbolici in corrispondenza degli spazi di servizio posti sulla
copertura; le profonde modifiche imposte al volume dei laboratori di
ricerca fino ad assumere una configurazione molto vicina a quella
dell’edificio del Segretariato di Chandigarh. Della mediazione con la
committenza viene ogni volta investito Jean Petit che è stato ben più
che un semplice collaboratore. Ciò che tale lettura restituisce è la
cura con la quale Le Corbusier rispondeva alle osservazioni e alle
critiche della committenza.
Nel capitolo “Le Corbusier biologiste”, infine, viene affrontata la
questione del modo col quale operavano i meccanismi dell’invenzione
formale di Le Corbusier che era un vorace manipolatore di immagini. Sono
stati analizzati con cura i modelli presi a prestito dalla biologia, il
parallelismo con certe tecniche utilizzate dalle avanguardie figurative
(avrebbe meritato una menzione a parte il movimento surrealista) come
anche l’analogia con i motivi decorativi di tipo seriale (pattern per
piastrelle, tappeti e tessuti) ai quali Le Corbusier si era esercitato
fin dagli anni di formazione a La Chaux-de-Fonds. L’autrice è stata
capace di mettere in luce in modo convincente le ragioni della
fascinazione esercitata dalle forme lecorbusiane legate a questa loro
origine trasversale e ibrida, straniante negli improvvisi salti di
scala.