Recensioni / Cambiano le crisi ma la disperazione è la stessa

Pensate a quelle notti in cui l'inverno decide di farsi sentire davvero e oltre al freddo butta giù goccioni d'acqua che potrebbero riempire un bicchiere a testa. Immaginate una di quelle notti lì e immaginate di non avere con voi un ombrello né un cappotto, e dopo aver immaginato questo immaginate di non dovervi affrettare verso alcun portone perché non avete nessun appartamento dove rincasare. Immaginate che nessun tepore domestico vi attenda e che nessun ristoro familiare possa accogliervi.
Se riuscite a immaginare tutto questo, se riuscite a sentire le vostre scarpe malandate farsi zuppe a forza di pestare sul tamburo d'asfalto lucido della città, allora potrete farvi una sommaria idea di quale possa essere la vita di un vagabondo. A questo punto potrete leggere "Un pasto caldo e un buco per la notte" di Tom Kromer, tradotto e curato da Mario Maffi per Quodlibet (pp. 190, 15 euro).
Il protagonista di questo primo e unico romanzo di Kromer è un barbone e il libro, scritto nel 1933 e ambientato nell'America della Grande Depressione, ne racconta (in prima persona) le vicende. Le racconta senza retorica e senza piagnistei, ma con grande semplicità e asciuttezza e a tratti con molta ironia. Kromer, lo scrittore statunitense morto nel 1969, aveva vissuto realmente da vagabondo e sapeva quel che diceva: quella sua esperienza - è ovvio - è stata determinante per il venire alla luce del libro.
Determinanti sono anche alcune scene che riconoscerete come tali quando vi accorgerete che in effetti sono indimenticabili. Ve ne accorgerete con un paio di secondi di ritardo, lì per lì vi sembreranno normali perché scivolano via come niente fosse, senza enfasi e senza effetti speciali. Vi si riveleranno come qualcosa che aveva tentato di nascondere la propria forza nell'assenza di ogni forzatura. La grande narrativa sa come contrabbandare le ferite che vuole raccontare.
C'è per esempio la giovane madre che da dentro un bar fissa la panchina del parco dove ha abbandonato il figlio neonato: non ha un centesimo per mantenerlo e così, nascosta da una distanza relativa e al tempo stesso assoluta, attende che la sua speranza si compia e che un passante scopra il piccolo e lo porti in mani estranee ma almeno sicure. Sono pagine - poche, un paio - che mostrano senza makeup quanto possa essere pragmatica la disperazione e come possa avere la meglio su ogni vincolo biologico, sino a decapitare quello che lo è per antonomasia. Ma c'è anche la scena del barbone anziano in fila fra tanti altri homeless per un piatto caldo e che all'improvviso cade a terra morto, semplicemente perché esistono destini di povertà che si concludono così, senza che nulla cambi tra il minuto prima e quello dopo e senza che il mondo se ne accorga.
Sono soltanto due le dimensioni della vita di un babone, fa pensare questo libro: la posizione verticale di quando cammina alla ricerca di un «pasto caldo» e la posizione orizzontale di quando rimedia un «un buco per la notte» e riesce a dormire, magari coperto da cartoni o altri materiali di fortuna. Come i sacchi di tela che fanno la felicità del protagonista in un edificio abbandonato: «Mi cavo i vestiti bagnati e m'infilo nudo tra i sacchi». Ma mentre Thomas Kromer (si chiama così, in un autobiografismo palese) si sistema nel suo giaciglio, lascia libere alcune parole che sembrano racchiudere l'unico sogno possibile di un senzatetto: «Niente di cui preoccuparmi fino a domani». Tutto qui: la tranquillità a tempo determinato che nasce dallo scampo, quello starsene lì, nella tregua sempre precaria della marcia forzata di ogni giorno, aspettando di scivolare nel sonno per poi ricominciare il giorno dopo, sin quando tutto finirà.
Quello che però più colpisce del romanzo sono le riflessioni dell'io narrante sull'impossibilità di trattenere il passato, dopo che si è finiti a sopravvivere in strada: «La gente che ho conosciuto non me la ricordo più. Scomparsa. Via dalla mia vita. Non riesco a ricordarli più. Anche la mia famiglia, mia madre, il ricordo di tutto ciò è offuscato». La povertà è sempre totale. "Un pasto caldo e un buco per la notte" è un libro da non perdere, attualissimo e di grande forza. Non si dimentica e sembra scritto ieri (andrebbe accompagnato col "Diario di un senza fissa dimora" di Marc Augé, l'etnofiction del 2011). Kromer ricorda che quando si è perso tutto, quando le circostanze e i fallimenti della vita portano a perdere tutto, succede che nessuna speranza sia poi più vera. Diventa un'illusione, com'è un'illusione l'idea di fuggire da un destino che occulta i suoi perché. Aveva ragione Hemingway in "To have and have not": «Un uomo solo non ha uno straccio di possibilità». Nemmeno se è Cristo.