Recensioni / Uccidere spazi. Microanalisi della corrida


In questo secondo lavoro sullo spazio (il primo è Spazi Uniti d'America. Etnografia di un immaginario, Macerata, Quodlibet Studio, 2012) l'antropologo e scrittore Matteo Meschiari apre valvole di sfogo intellettualmente produttive nei meccanismi inceppati di un discorso che, come quello della corrida, si presta spesso a considerazioni banali e interpretazioni fuori luogo.
Nell'arena editoriale italiana e, nell'ambito particolare degli studi culturali, siamo di fronte a un testo che costituisce una novità tematica e metodologica. Un saggio breve, ingegnoso e vigoroso, dove il dichiarato distacco dell'autore nei confronti dell'argomento, l'ampio spazio dedicato al pubblico delle corride, l'avvio inedito e coraggioso di una web writing anthropology (che riporta i linguaggi di un'arena virtuale, muta con gli aficionados e strepitante con le filippiche francescane degli animalisti) sono solo alcuni dei punti di forza che rendono questa microanalisi tagliente e stimolante.
Che cos'è la corrida? È un luogo, come specifica Meschiari, all'interno del quale si trova uno spazio ellittico che «racconta sempre la stessa identica storia» e rappresenta una certa quantità di immagini fisse con varianti e sfumature lasciate al caso. «L'arena è uno specchio», non uno specchio nel senso utopico/eterotopico di Foucault, ma una macchina fenomenologica che riflette i processi cognitivi aptici dello sguardo dello spettatore. Si tratta di un'estensione/introiezione del corpo nello spazio e dello spazio nel corpo, ma più nello specifico di un embodiment della visione che riguarda non solo corpi, ma organi, azioni, autoproiezioni e narrazioni. L'autore riflette su tre aspetti inesplorati che si danno effettivamente nella corrida. Vediamo quali:
 - il rapporto animalità/animismo non nei termini di pietà animalista, ma come «autocoscienza umana», ovvero riconoscersi uomini nello scarto dell'animalità. «L'animismo è il sostrato strutturale della tauromachia, e l'arena è forse l'ultimo luogo in Occidente in cui all'animismo di bestie domate o digerite si oppone un animismo di essenza e resistenza». E se da una parte il lato selvatico del toro viene mascherato da un eccessivo simbolismo genetico-colturale di casta (l'animale è prodotto culturalmente da scelte umane), dall'altro si spettacolarizza la wilderness nella morte dello spazio. E anche quando il torero fa il toro hombre, il punto non è regalare brandelli di umanità al toro o di animalità all'uomo, ma dare anima e corpo alla corrida oggi, dove si violentano certe idee preconcette di spazio e se ne mette in scena l'abuso consenziente
e la morte conseguente;
- il rilevamento di una cultura visuale, performativa e narrativa fine a se stessa. La corrida mette in moto una fantasmagoria di immagini in praesentia e in absentia. Per esempio la fenomenologia percettiva giocata tra ciò che il toro ha davanti a sé (capo e muleta) e che crede essere il torero è una fiction che dura, creando lo spazio di con-fusione performativo tra i due agenti, fino a quando il toro vede il corpo vero del torero e a quel punto lo spettacolo e la storia devono finire: il toro e lo spazio devono morire. In questa dinamica visuale le forme dello spazio, nelle figure di attori e spettatori, raccontano immagini e le immagini rappresentano storie secondo uno storytelling in cui attorialità e autorialità si scambiano le parti. Una sintesi narrativa e performativa dove l'estensione del corpo e l'embodiment dello spazio d'azione tengono in piedi il gioco reale e proiettivo;
- il pensiero apocalittico: «chi va nell'arena ci va per trovare qualcosa che manca là fuori [...] va verso la morte dello spazio e la fine dei tempi», perché la corrida «è un dove senza un verso, e senza un senso». E se «alla fine la performance è nel pubblico» vuol dire che la paura e il desiderio della fine e della morte si danno nello spettatore per un breve momento, nello spazio tra il corno del toro trafitto e il neurone specchio placato. E per un attimo il pubblico è laggiù nello spazio senza organi, disorganico, apocalittico, a guardare in faccia la morte che incorna lo spazio.
Nel suo esistere sovversivo e a-morale come «essere per la morte», la corrida è un dispositivo che funziona perché, mettendo in scena lo stesso meccanismo visuale, narrativo e performativo del teatro nel teatro, dilata e critica la realtà attraverso simulacri e maschere di senso contro il senso comune, biopolitico e claustrofobico del fuori.