Dagli anni sessanta la presenza di Walter Benjamin nel pensiero politico
e nella saggistica estetica, sociologica e massmediatica non ha fatto
che intensificarsi. Veicolata anche dal fascino del filosofo, dall'esito tragico della sua fuga dai nazisti, dalle
condizioni precarie nelle quali molte sue opere sono nate e si sono
fortunosamente trasmesse, la ricezione di Benjamin si è sviluppata
soprattutto valorizzando frammenti. Oltre che a causa della ricchissima
gamma di terni a cui si è diretta la sua riflessione, della
valorizzazione frammentaria della sua opera forse è stato complice anche
lo stile capace di enfatizzare singoli passi, persino laddove questi si
trovino all'interno di testi dotati di forte continuità e struttura.
Densa fino ad apparire misteriosa, dotata di straordinaria forza
aforistica, capace di immagini mutantisi in icone concettuali (l'Angelus
Nouus di Klee, la Melancolia di Diirer, l'aura, l'automa e il nano
nascosto che muovono gli scacchi), stimolante fino al suggerimento di
ricerche ulteriori per i lettori dall'ingegno più eccitabile, critica
demolitrice ma al contempo indicatrice liberante dí speranza, illuminante fino alla folgorazione
poetica proprio nei momenti di più alta intensità storica e politica
come ad esempio nelle tesi Sul concetto di storia, la scrittura di
Benjamin ha anche da sé contribuito a stimolare negli interpreti una
certa polarizzazione del suo pensiero. In modo particolare su due
fuochi: la secolarizzazione nella
modernità e la teologia nella politica. E nell'opposizione o nel rimando
reciproco di questi due poli si è giocata una grande parte della sua
ricezione. Soprattutto le interpretazioni riguardanti la perdita d'aura e
l'acquisto del valore espositivo dell'opera d'arte, la riproducibilità
tecnica dell'immagine nella fotografia e nel cinema, il giudizio critico
sulle opere di Goethe, Baudelaire e Kafka, il rapporto tra il teatro
barocco e il sovrano moderno, la nuda vita e la violenza pura, la storia
evenemenziale e l'indice messianico del tempo, la relazione marxiana e
freudiana tra merce e feticcio. Di concerto con quanto è avvenuto per i
temi maggiori delle sue opere più discusse anche riguardo i rapporti
intellettuali di Benjamin, la ricezione si è concentrata sugli
interlocutori coevi o più prossimi a lui: Kraus, Brecht, Schmitt,
Adorno, Scholem. Ciò ha lasciato in ombra personaggi meno vicini e
soprattutto ha trasposto fonti, come quelle bibliche, in un orizzonte
meno diretto di quanto forse non fosse. Per orientarsi in modo diverso
nell'opera di Benjamin, offre un percorso per molti versi alternativo
che rifiuta i consueti punti di riferimento della secolarizzazione e
della teologia lo studio di Sigríd Weigel, Walter Benjamin. La creatura,
il sacro, le immagini (trad. it. di Maria Teresa Costa, Quodlibet, pp.
300, curo 24). Proseguendo e in parte sviluppando l'interpretazione di
Stéphane Mosès (di lui si consideri l'importante contributo benjaminiano
La storia e il suo angelo) cui il libro è dedicato, la studiosa propone di vedere alcuni fra i temi più importanti
degli scritti di Benjamin alla luce di un più stretto legame con la
Bibbia. E in particolare con il linguaggio che dalla Bibbia Benjamin
assume come codice della «doppia referenza»: al contempo familiare ed
estraneo, ma per questo motivo difficile da tradurre direttamente
nell'attualità storica e politica.
Doppia referenza è l'opposto dell'ambivalenza la quale, invece,
costituisce, secondo la studiosa, proprio l'elemento che ha permesso di
articolare i rapporti tra il secolare e il teologico, di trasporre l'uno
nell'altro e viceversa e di costruire così quella koinè ermeneutica
dell'opera di Benjamin dalla quale Weigel vuole distanziarsi. Così lei
scrive: «La differenza tra la lingua usata oggi a fini comunicativi e le parole scelte da
Benjamin riguarda non da ultimo la distinzione tra lingua sacra o
biblica e dibattito moderno e secolare. Il suo postulato «chiamare le
parole per nome» significa letteralmente riportare l'uso profano della
lingua alla sua origine biblica e cultuale». Detto in altri termini,
secondo Weigel, occorre considerare l'elaborazione del linguaggio biblico da parte di Benjamin né come una
secolarizzazione della teologia, né al contrario una teologizzazione del
secolare, ma come un tipo di strategia «figurale» per usare un termine
di Auerbach e qui più significativamente di Warburg.
Quella di Weigel è più un'interpretazione attenta a capire da dove
vengono e come collocare fra loro le idee di Benjamin e meno a come
utilizzarle e svilupparle.
Ed è proprio la sua maggiore attenzione filologica alla derivazione, il
fastidio per quello che è sentito spesso come un troppo semplificato uso
attualizzante dell'opera di Benjamin, più che una pur invocata
erroneità interpretativa, a far fare in chiave critica alla studiosa più
volte il nome di Agamben. E cioè il filosofo che più di tutti ha
investito sulla capacità dell'opera di Benjamin di descrivere aspetti
cruciali del rapporto fra politica e legge, economia, religione e
tecnica nell'orizzonte storico del tardo capitalismo.
Anche per la maggiore difficoltà nell'evitare l'ineludibíle dimensione
politica attualizzante dei concetti di «sacro» e «creatura» a favore del
loro supposto più appropriato recupero filologico biblico, la parte più
interessante e originale del libro di Weigel è la terza: quella
relativa alle «immagini». Qui viene ricostruita la vicinanza di Benjamin
a Warburg, passate in rassegna le opere pittoriche alle quali Benjamin
ha attinto e dalle quali ha sviluppato soprattutto le idee dell'immagine
della scrittura, della leggibilità dell'immagine nel tempo,
dell'elaborazione dell'esperienza visiva e visionaria del pensiero, del
dettaglio e del gesto nella fotografia e nel cinema.