Un pomeriggio, verso la fine del secolo scorso, Gianni Celati se n’era
uscito con uno dei suoi famosi slogan: de-furbizziamo la letteratura!
Voleva lanciare una campagna per liberare la letteratura dalla furbizia,
secondo lui non c’è niente di meno gustoso, divertente, vitale,
intelligente dell’annoso e sfiatato accumulo di trucchi presi di peso, e
senza nemmeno rendersene conto, dalla prassi politica vigente.
Nel dibattito che ne era seguito (si chiamavano «agitazioni di
pensiero»), ci era sembrato di individuare un pericoloso slittamento, la
parola intelligenza era scivolata quasi del tutto fino a furbizia, vale
a dire mettere in atto accorgimenti per procurarsi vantaggi personali,
calcoli, macchinazioni, che con l’intelligenza non solo c’entrano poco,
ma sono rivali naturali della forza, mentre l’intelligenza ha bisogno di
vagare, di aprirsi perfino alla debacle. Qualcuno s’era spinto a
considerare l’opportunità di proporre agli editori una fascetta con su
scritto: libro de-furbizzato, come si legge de-nuclearizzato sulle
targhe dei comuni.
Mi sono venute in mente quelle chiacchiere moderne leggendo già la prima
delle Galline pensierose di Luigi Malerba: «Quando vennero a sapere che
la terra è rotonda come una palla e gira velocissima nello spazio, le
galline incominciarono a preoccuparsi e furono prese da forti capogiri.
Andavano per i prati barcollando come se fossero ubriache e si tenevano
in piedi reggendosi l’una all’altra. La più furba propose di andare a
cercare un posto più tranquillo e possibilmente quadrato».
Il prezioso libretto era uscito nel 1980, poi in edizione accresciuta
nel ’94 (la nuova contiene 9 inediti fino al numero di 151), e comunque
quando l’intelligenza aveva diversa caratura, c’è poco da fare, più
antica e passibile di fallimenti e fraintendimenti senza dubbio, anche
se oggi vincono i negazionisti, i vessilliferi del posto
simil-tranquillo e quadrato abbastanza. In queste che non si possono
chiamare altro che storie (non favole, non apologhi), il grande parmense
esegue ogni volta, direi manualmente, il gesto della conoscenza,
quell’intenzione che rappresenta l’essenza stessa della coscienza che è
sempre un tendere, esser tesa verso un oggetto. In quel momento però, è
così abile da lasciare il testimone alle galline, «le bestie più stupide
del mondo», ci pensano loro a dimostrare come la meccanica del pensiero
coincida con l’azione del desiderio, l’arraffamento incessante, e sia
una volontà sempre inefficace.
È vero certo che la paupertas dell’apologo o della fiaba esopiana presta
le regole, ma impreziosita da un riso breve e subito ricomposto,
laconico anch’esso. Le vicende, in cerca di straordinario, sono in
realtà esemplari di brevità, enigmi di svelta ambiguità e soluzioni
serenamente fulminanti che spesso tornano all’inizio, all’uovo. È la
retorica dell’istante, del fulmineo ed effimero che sparisce per
ricomporsi un po’ più in là, come un’ombra che s’allunga dal buio
passato verso l’avvenire fatalmente incerto, esempio la gallina
babilonese che zompetta sui mattoni di creta prima della cottura e
tremila anni dopo gli archeologi «finalmente riuscirono a leggere quei
segni e li tradussero nelle lingue moderne».
Abituato a incursioni nel mondo parallelo fiabesco e animale, seguace
del metodo «lo scrivo così vedo che ne penso», Malerba non si scompone,
in uno stato di gentlemen’s agreement lascia le galline razzolare, si
limita a mettere in scena il «patrimonio culturale» del pollaio.
Constatazioni tremende come l’odio tra sostenitrici di alba o tramonto,
salti di palo in frasca intorno alla parola tasso, logiche stringenti e
mafiose, irrequietezze alla Bovary, fino alla diatriba con Baudelaire,
il quale «aveva detto che la campagna è quel posto dove le galline vanno
in giro crude. Una gallina disse allora che la città è quel posto dove i
poeti vanno in giro cotti». E non poteva mancarne una, a nome Natalia,
che vuol fare la scrittrice, non è capace, ma le basta scrivere «i suoi
ricordi d’infanzia ed ebbe molto successo». C’è niente da fare,
ogniqualvolta le galline si credono furbe il riso deve farsi amaro.
A guardar bene tra le penne che volano, c’è tutto l’armamentario
fondante della filosofia, occidentale e orientale, anzi quella orientale
fornisce il mezzo abile, l’espediente che libera chi assiste alle
polverose giornate campali della conoscenza da una convinzione
inconsapevole e basata su un bell’accumulo di niente, dalla maledizione
di un ordine che c’è prima e presiede a tutto, dal quale ci dobbiamo
liberare ad ogni costo, non per sostituirlo col contrario che lo
legittimerebbe di nuovo, ma col niente, e quell’affanno vano e
controproducente lo si chiama in vari modi, ad esempio lotta per la
libertà personale. Le galline di Malerba sembrano dirci che c’è una
specie di zona confusa, nella testa, che ci mette in contatto con le
cose, come quando hai sotto gli occhi una parola scritta a mano che non
si distingue, non si capisce, poi distogli lo sguardo, ce lo rimetti a
caso e risulta chiarissima.
Ce n’è una, orvietana vedi un po’, che dopo un viaggio in Cina «si
accorse che se camminava con le zampe sporche su un foglio di carta
pulita, sapeva scrivere in cinese». Il volatile lascito delle galline di
Malerba nel loro affannarsi è non solo che niente ha un senso fin
dall’inizio, ma che ammetterlo sarebbe un vantaggio, dopo quello che
viene viene e perfino qualche senso ce l’ha. Sempre con mano ferma però
nel dimostrare che «se non ci fossero le parole non ci sarebbe nemmeno
il mondo, comprese le galline». E alla fine viene da riaffacciarsi con
gli editori: una fascetta, colorata o no, con su scritto: letteratura
de-furbizzata. Non costerebbe niente, ormai.