I l 20 settembre 1961 Le Corbusier e Roberto Olivetti, dopo la morte di
suo padre Adriano nel febbraio dell’anno precedente, firmavano a Parigi
il contratto per il progetto e la costruzione del centro per il calcolo
elettronico presso Milano. Ma la storia di quel progetto comincia molti
anni prima, con l’interesse di Le Corbusier per il nuovo «villaggio
industriale» di Olivetti del 1934 e quello di Adriano Olivetti per
l’architettura del Movimento Moderno, un interesse espresso nello steso
anno con l’incarico a Figini e Pollini del primo ampliamento della
fabbrica Olivetti di Ivrea. Non si deve dimenticare la relazione di
Adriano Olivetti con la migliore architettura italiana proseguì negli
anni successivi con il piano della valle d’Aosta nel 1943 e, dopo il
conflitto, con le collaborazioni con Quaroni, i BBPR, Ridolfi, Cosenza e
anche alcuni più giovani. È l’incontro necessario tra i più alti ideali
rivoluzionari dell’internazionalismo critico del movimento moderno e
quelli profondamente civili della fondazione di Comunità capaci di
partecipazione collettiva profonda che Adriano Olivetti vuole
concretamente proporre.
La personalità, gli incontri, le relazioni
A questo incontro è dedicato nel nuovo bel libro di Quodlibet (pp. 125, e
32) dal titolo Le Corbusier e Olivetti: la usine verte per il centro di
calcolo di Silvia Bodei (che fa anche giustizia della volonterosa, ma
molto approssimativa, serie televisiva dedicata di recente alla vita di
Adriano Olivetti). Il libro, ben illustrato ed ottimamente documentato,
descrive con precisione i rapporti concreti tra le due personalità, gli
incontri, le relazioni nonostante le difficoltà politiche e del
conflitto europeo, e soprattutto le ragioni delle relazioni tra gli
ideali Corbusierani dell’«usine verte», dei «trois établissements
humains» e degli ottimistici «appels aux industriels», con quelli degli
ideali politici di «Comunità» (e delle sue connessioni con gli scritti
di Simone Weil). Nell’introduzione sono analizzate le condizioni
generali sia politiche che culturali, ed in particolare
dell’architettura, in cui questi incontri avvengono e come maturano le
trattative per la decisione del progetto di una sede per il futuro
dell’elettronica con le sue diverse componenti di servizi già nella
seconda metà degli anni cinquanta, nonché per le diverse fasi del
progetto che nel 1962 è terminato.
«L’architetto ed il cliente»
Dopo due anni però è la società ad entrare in crisi, e la morte di
Corbusier nel 1965 metterà definitivamente fine all’iniziativa. La crisi
della società (a cui segue la morte di Roberto Olivetti nel 1986)
sembrano essere i sinistri segni di una crisi in quanto mutazione
interrogativa, senza risposta né politica né culturale che sta
progressivamente mettendo da parte gli ideali e le utopie concrete che
avevano attraversato nel ventennio precedente la stessa cultura
architettonica oltre che industriale. Non a caso il titolo della prima
parte del libro è la descrizione di una relazione storica tra due
persone che decidono di un progetto, una relazione ormai difficilmente
rintracciabile: «L’architetto ed il cliente», una relazione a partire da
fondamenti ed obbiettivi comuni che il progetto deve concretamente
rappresentare. Oggi, come è noto, in genere gli obbiettivi son quelli
del mercato e della provvisorietà di cui l’architetto è illustratore di
decisioni già prese. Nel celebre libro di Francis Donald Klingender del
1947, Arte e rivoluzione industriale, segue un’analisi precisa delle
questioni che alla metà dell’Ottocento molti intellettuali e artisti si
erano posti, dopo mezzo secolo di sviluppo organizzativo della
produzione di fronte alla consolidata rivoluzione industriale.
Una rivoluzione sociale
Ma un altro mezzo secolo sarà necessario perché tale rivoluzione divenga
per gli architetti «civilisation machiniste» nel significato di
rivoluzione sociale, del confronto tra le arti e della loro benjaminiana
«riproducibilità tecnica», problemi le cui proposte di soluzioni ideali
sarebbero durate non più di mezzo secolo. Sappiamo bene invece che la
cultura del capitalismo finanziario globale (che come l’idea di
produzione industriale ha radici molto lontane nel tempo) in pochi anni
offre alla società ed alle arti nuove questioni e nuove possibilità che,
in breve tempo, pur nell’accelerazione incessante degli eventi, hanno
proposto anche nuove profonde incertezze e provvisorie mitizzazioni
ancora ben lontane dall’essere risolte in positive prospettive. E forse i
nostri Olivetti ed i nostri Corbusier devono ancora nascere.