Recensioni / Da Pascoli a Busi

Da Pascoli a Busi di Matteo Marchesini pone intanto davanti a una certezza: si tratta di un libro necessario, di quelli capaci di resistere al tempo e di sfidare l’ottusa, calcolata indifferenza di chi – lo dice bene Berardinelli – s’illude che basti ignorare qualcosa per negarne l’esistenza.

Rifiutarsi al dialogo e al confronto e risolverla in laconiche sprezzature ciniche sembra essere lo sport preferito di chi pure condivide le stesse passioni, ma con metodo e spirito diversi. Militanti e accademici, nessuno è senza peccato. A Matteo Marchesini preferiamo non prestare etichette, convinti che “scrittore” la dica meglio di “scrittore realista” o “satirico” o “di fantascienza”. I suoi articoli sul «Foglio» starebbero a loro agio nelle mani di studenti e professori universitari senza nulla perdere della loro vivacità intellettuale. La polemica, sia chiaro, non mira soltanto all’accademia, ma a chi la respinge perché espulso o deluso dalle sue trame meschine. La differenza non è nei luoghi, reali o virtuali, d’esercizio della cultura, ma tra chi studia e chi no, tra chi comprende e chi giudica.

Da Pascoli a Busi è un libro che val la pena rileggere e ripensare. Marchesini non è della schiera dei criticastri che è già tanto sbirciarli, non guadagna indulgenze con l’entusiasmo e l’impegno, i suoi ritratti di scrittori e le sue letture del presente della cultura italiana restano a galla nella memoria che di solito affonda ciò che non le occorre o non ha forza di sopravvivere. Così accade per i ritratti di critici e scrittori o per le analisi stilistiche su Rosselli, Pecora, Febbraro, Maccari (da preferire al saggio su Caproni, dove manca la poesia, la riprova dei versi), a dimostrazione che militanza non è l’alibi di chi non distingua un endecasillabo da un settenario, una metafora da un’anafora.

Da Pascoli a Busi (omnia bona sunt trina) non è un canone beffardo, né una posa intellettualistica d’avanguardia, vuol dire muoversi liberamente nell’universo della letteratura senza temere di accostare, sia pur solo nel titolo, due nomi così distanti da far impensierire anche il più ingenuo e pietoso fra i lettori. Significa, più di tutto, rivendicare il diritto di far convivere (nella stessa riflessione in movimento) un integrato e un escluso, il poeta laureato e il fuoriclasse riottoso a qualsiasi disciplina. L’invito – e questa è operazione culturale, più che strettamente letteraria – è a liberarsi delle gabbie che una certa prepotenza intellettuale, verticista e settaria, ci costringe ad abitare. È pur vero che la letteratura non è la cultura e non va confusa con essa. Che ne rappresenti un aspetto è pacifico ma è altrettanto pacifico che una poesia, un romanzo, non sono meri fenomeni culturali. C’è qualcosa di più e di meno, in ogni caso di diverso, che non si può esprimere se non in termini tautologici. Perché la letteratura e la poesia aprono uno spaccato sulla cultura senza esserne integrate, magari, qualche volta, respinte.

Pienamente consapevoli dei meriti di questo libro, proveremo adesso a discutere un punto che poco ci ha convinti e un altro che ci provoca un lieve ma persistente malanimo.

Primo punto: Marchesini insiste sulla necessità di detronizzare gli idoli, di opporsi alla monumentalizzazione degli autori. Nulla quaestio, ma l’imperativo non esaurisce problemi e perplessità: troppo facile crearsi degli idoli, troppo facile rinnegarli. Nel primo caso si abdica alla coscienza critica, nel secondo si monumentalizza l’io, sino a farne la misura di tutte le cose. Il dubbio, cioè, è che in questo ridimensionamento dei grandi a trionfare sia proprio l’io che dovrebbe fare esercizio di umiltà nei confronti del mistero della letteratura (e della vita). I testi eccedono la nostra capacità di comprensione, ci trascendono, e mettersi al servizio non è per forza sinonimo di acriticità. Il feticcio nasce quando una cosa resta nella forma, nel rito, ormai privata del contenuto e della possibilità di discuterlo. C’è qualcosa di funereo, è vero, nell’abitudine di certo specialismo a disporre opere e autori sul tavolo anatomico (l’immagine è di Montale), privarli della vita e della possibilità di parlarci come un tutto organico e pulsante. Dalla parte opposta il rischio è invece quello di una prosa troppo incalzante e carica di fatti per poter indugiare sul dettaglio e riconoscervi una cifra stilistica e di pensiero. È il limite che si ravvisa in alcune pagine sì di largo respiro, ma con un deficit di profondità.

Secondo punto (legato al precedente): avremmo preferito leggere su Montale qualcosa di più di un’etichetta avara come «qualunquista scettico in pantofole». Mentre afferma di non voler liquidare in due righe gli autori trattati en passant, Marchesini lo fa dandone giudizi «inequivocabili» (p. 14), inequivocabilmente ingenerosi, a dispetto di qualsiasi favor libertatis, laddove non si abbiano indizi sufficienti per condannare. E – sia detto con franchezza pari almeno a quella del nostro autore – sembra che qui la reprimenda sia urlata senza il giusto corredo di esempi e argomenti.

Ma sarà il caso di citare per intero il passaggio in cui è sferrato il colpo decisivo al gigante:

Quando Montale lascia cadere la maschera metallica o petrosa dei testi più compatti, ecco che dietro la perfezione della sua superficie, dietro gli amuleti e i correlativi oggettivi che lo nascondevano con scolastica astuzia, si scopre il volto di un qualunquista scettico in pantofole, diviso tra generico buon senso e vaghi aneliti spiritualisti (p. 77).

Passino pure “scettico” e “in pantofole”: skepsis è il dubbio e le pantofole (immagine già in uso presso l’accademico Segre) sono meglio dei mocassini radical chic un po’ dandy. Non è ben chiaro, invece, perché Montale meriti del “qualunquista”. A chiunque l’abbia conosciuto, il poeta colpiva per la sua intelligenza; al pensiero “qualunque” preferiva il silenzio, cosciente che a volte «la più vera ragione è di chi tace», e sarebbe un’impresa di non poco conto trovarvi un solo pensiero non meditato a fondo, che incontri o no il nostro favore. Lo spazio e la circostanza sono ostacoli a un valido contraddittorio, ci limitiamo perciò a dire che non ha senso discutere in questo modo il primato degli idoli – cosa di per sé sacrosanta – con giudizi approssimativi e ad effetto, e vi è il rischio concreto che tutto finisca nella solita farsa, in questo bisogno di rimpicciolire (o di ingigantire) ciò che sfugge alla nostra capacità di comprensione. È difficile a questo punto liberarsi dal dubbio che per Marchesini circa un secolo di studi su Montale sia passato invano; che i suoi lettori, studiosi, appassionati non siano interlocutori degni ed egli si giudichi tra i pochi depositari di una verità – poesia / non poesia – che altri, ahinoi, non saprebbero perscrutare. L’esempio di Montale è utile per riflettere su uno fra i passaggi del testo che appaiono non sempre sorvegliati da un ascolto paziente. Il punto, naturalmente, non è l’attacco mirato a tizio o a caio, quanto – è bene ribadirlo – il prevalere del giudizio sulla comprensione: Montale “qualunquista” indispettisce tanto quanto il Marchesini “conservatore”.

È un neo che non altera il valore dell’operazione compiuta da Marchesini, che tutto pondera e vivi fa gli autori con i quali dialoga. Last, la ragione per cui Da Pascoli a Busi è un libro necessario non andrà semplicemente rintracciata nelle cose che contiene, ma nell’atteggiamento propulsivo di chi, dal fondo della palude, può serenamente annunciare che “da oggi si cambia”.