«Amo pianificare i miei romanzi dall'inizio alla fine», dice Orhan
Pamuk. Gli risponde, idealmente, Javier Marías: «Sono il contrario del
romanziere che sa tutto già prima di cominciare a scrivere». Si alza la
voce di Tony Morrison: «Quando comincio a scrivere un libro mi è già
chiaro dove andrà a parare l'intreccio». Si intromette Michael
Cunningham: «All'inizio non ho ben chiaro dove mi sto indirizzando». Le idee dei grandi scrittori danno
l'illusione, di solito, di essere verità universali sulla produzione
letteraria.
Non ci si accorge mai come capita ascoltandoli tutti insieme di quanto
siano soggettive e instabili le loro posizioni. È un coro polifonico il
risultato del libro orchestrato da Francesca Borrelli, Maestri di
finzione (Quodlibet, pagine 610, 28 euro), in cui sono raccolti 20 anni
di incontri e letture con autori ditutto il mondo. «Un'intervista può
essere per me terribile», le dice Anna Maria Ortese, ma fortunatamente
ciò non vale per tutti. Don DeLillo, per esempio, le concederà ben sei
interviste, che coprono un arco temporale che va dal 1999 al 2012.
Anticipate da un breve testo che inquadra l'opera complessiva e il
romanzo più recente, le interviste scansano i riferimenti biografici:
non riguardano mai la vita privata, il contesto dell'incontro, né
annotano vezzi, look, o segni distintivi (a parte evocare i cappelli di
Amélie Nothomb, la sedia a rotelle di Tony Morrison, i giubbotti di
pelle di
Paul Auster). Tutto ciò che interessa Francesca Borrelli è un dialogo
serrato sui testi, su singole frasi citate, trame, allegorie, psicologie
dei personaggi, quasi assecondando l'adagio di Jacques Derrida secondo
cui non c'è nulla al di fuori del testo («il n'y a pas de hors-texte»).
Le domande non sono mai interscambiabili, ogni autore ha le sue. Alcune
contengono intuizioni critiche
che bastano da sole a far luce sui testi: a Yehoshua chiede se il
giovane arabo del primo romanzo L'amante (1977) non «trovi un suo
prolungamento in Rashed», personaggio di La sposa liberata (del 2001).
Utilizza poche parole per tratteggiare la narrativa di uno scrittore,
come nel caso di Jeffrey Eugenides: «immune da cadute di tono». A volte
affiora un'antipatia: «Il carattere bizzoso.
Esigente come una regina nata in miseria» riferito a Jamaica Kincaid; o
una nota negativa, come su Paul Auster: «I suoi alterni risultati e
l'inclinazione a concentrarsi sulla sua persona mi hanno dissuaso
dall'incontrarlo più di unavolta». Francesca Borrelli parla di mare con
Derek Walcott, di cioccolata bianca con Amélie Nothomb, di Raymond
Carver con Tobias Wolff, di Effie Briest con Giinter Grass. Si confronta con David Foster Wallace, Emmanuel
Carrère, Jennifer Egan, Julian Barnes, Kurt Vonnegut, Ian McEwan, e
molti altri.
Le oltre 600 pagine di Maestri di finzione appaiono come un planetario
con le rotte tracciate delle influenze di decine di classici
contemporanei. Di ogni autore si riscontrano elementi di continuità e discontinuità, debiti, fuoripista. Se è vero, come dice
Anna Maria Ortese, che «spesso non sappiamo nulla di ciò che abbiamo
nell'animo, finché uno scrittore non ce lo rivela», può capitare che
sfugga anche cos'abbia nell'animo uno scrittore, ma che un intervista ce
lo riveli.