Come lavora l’architettura? I saggi di Peter Eisenman raccolti in Inside
Out (Quodlibet, 2014 - Traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini)
offrono una potente risposta a questa domanda, elaborata nel corso di
venticinque anni di attività come progettista e teorico
dell’architettura. Gli scritti spaziano dalle riflessioni sul fare
architettonico in senso ampio, all’illustrazione dei propri progetti,
all’analisi delle opere di Alison e Peter Smithson, Philip Johnson, Le
Corbusier, Aldo Rossi, Mies van der Rohe, Paul Rudolph e James Stirling,
fra gli altri. Non mancano i riferimenti ad altri teorici
dell’architettura, come Colin Rowe e Manfredo Tafuri e a filosofi, come
Jacques Derrida, ma sono l’originalità e la profondità della proposta di
Eisenmann a caratterizzare l’intero volume.
Come sottolinea Roberto Damiani nella nota a chiusura del volume,
Eisenman, insieme a Christian Norberg Schulz, Robert Venturi, Aldo Rossi
e Rem Khoolhaas è uno degli architetti che, dopo Le Corbusier, si sono
affidati alla scrittura come strumento per pensare l’architettura.
Eisenman illustra così le motivazioni di questa scelta:
Quello che il mio lavoro ha scoperto è che le caratteristiche principali
condivise dal classico e dal moderno – geometricità, stabilità e
normalità – reprimono le altre possibilità di un’interiorità
dell’architettura. Lo studio di queste repressioni inconsce ha
costituito la base della teoria critica fin dal XIX secolo, ma questi
studi hanno raramente incluso l’architettura. È all’interno di tale
contesto critico che mi è sembrato possibile allontanarmi dai paradigmi
tradizionali dell’architettura e tentare di descriverne la condizione
interiore attraverso un paradigma considerato come esterno
all’architettura, ovvero il paradigma linguistico. (16)
Secondo Eisenman c’è una forte continuità fra l’architettura classica e
quella modernista: entrambe hanno privilegiato certi aspetti
dell’architettura e ne hanno messi in ombra altri; ragionando
sull’architettura con gli strumenti dell’architetto si rischia allora di
legittimare la posizione dominante, perché, a causa dell’uniformità di
atteggiamento dei classici e dei moderni, poco si può apprendere
relativamente agli aspetti dimenticati dell’architettura. Per portare
allo scoperto questi aspetti è meglio allora rivolgersi ad altre forme
di elaborazione concettuale, come quello offerto dal linguaggio.
1. Classici e moderni
In La fine del classico, uno dei saggi raccolti nel volume, Eisenman
sostiene che lo stile classico, affermatosi dalla seconda metà del XV
secolo, ha privilegiato tre narrazioni (fiction): l’architettura come
rappresentazione, l’architettura razionale e l’architettura nella
storia. L’architettura classica rappresentava quella antica, rifletteva
una visione antropocentrica e razionalista del mondo e si collocava
storicamente, individuando la propria origine nell’antichità. E
l’architettura modernista rappresenta la propria funzione (dando rilievo
agli elementi strutturali della costruzione), riflette una visione non
più antropocentrica ma ancora razionalista, orientata dai valori della
tecnica e della funzionalità e si colloca storicamente, sforzandosi di
essere l’architettura adatta per il proprio tempo. In entrambi i casi,
il modello del fare architettonico è orientato sugli stessi valori,
esterni all’architettura stessa. La ricerca formale dei moderni non si
distanzia dalle modalità dell’architettura classica: riflette
l’interesse umano per la rappresentazione, la verità e la storia e così
rivela di non essere all’altezza del proprio tempo, continuando a
promettere un futuro utopico a un’umanità che è invece alienata dal
mondo in cui abita, dopo la Shoah e Hiroshima, come sottolinea Eisenman,
e di fronte al rischio di una catastrofe ecologica – aggiungerei io.
L’architettura dovrebbe invece fare i conti con l’ansia dell’uomo
contemporaneo, anziché cercare di sopirla (335). Come? la nostalgia
postmoderna tentava di realizzare nell’architettura un ritorno alla sua
eredità ‘autentica’, ‘naturale’. Ma contrariamente a quest’idea è
possibile proporre un’architettura che abbracci le instabilità e le
dislocazioni che sono le autentiche verità di oggi, e non mero sogno di
una verità perduta. (365)
2. L’interiorità dell’architettura
Secondo Eisenman, l’architettura liberata dall’imposizione di valori
esterni è “invenzione permanente dell’abitare” (322), creazione di
oggetti che richiedono di essere approcciati, confrontati, sperimentati,
alla ricerca di nuove modalità di esistenza nel e abitazione del mondo
(342): “L’uomo non è più visto come primo agente. Gli oggetti sono visti
come idee indipendenti dall’uomo” (144). Gli oggetti architettonici
così liberati sono prodotti con l’intenzione di far emergere le loro
potenzialità intrinseche, la loro interiorità, secondo il termine usato
nella citazione da cui sono partita. Per esempio, quando Mies van der
Rohe nella Hubbe House usa pilastri e travi che non costituiscono la
struttura della costruzione, non hanno valore estetico e non sono
presentati in un modo che rimanda alla storia del pilastro, riesce a
spogliare questi elementi architettonici del loro significato e della
loro funzione (317), decostruisce il pilastro (anziché usarlo come
strumento compositivo, costruendo con esso) e ne porta allo scoperto la
struttura.
3. Il ruolo del linguaggio
In primo luogo il linguaggio offre uno strumento per decostruire
l’architettura, perché permette di procedere “alla rovescia” (inside
out): tradizionalmente si è partiti dall’esperienza fisica dell’oggetto
architettonico, delle sue qualità estetiche e proprietà funzionali e a
queste si è attribuito significato; partendo da un’analogia fra
strutture sintattiche del linguaggio e strutture architettoniche, come
fa Eisenman, invece, si comincia con un’invenzione teorica che cerca di
catturare le caratteristiche intrinseche delle strutture
architettoniche. Il linguaggio, poi, attraverso la scrittura, offre temi
con cui l’architettura può misurarsi, nuovi discorsi che le permettono
di affrancarsi dai valori tradizionali: “un edificio può avere una
funzione, offrire un riparo, essere condizionato dal sito, possedere
un’estetica e un significato senza necessariamente simboleggiare tali
condizioni nella sua forma. In realtà può fare tutte queste cose e
tuttavia parlare di qualcos’altro” (362).
Mi sembra che Eisenman si proponga come l’interprete, in architettura,
dell’autentico portato innovativo della tradizione modernista nelle arti
visive, che l’architettura modernista, secondo lui, ha invece mancato
di cogliere. Come, per esempio, la pittura modernista si è concentrata
su se stessa, ossia sulle peculiarità del medium pittorico (in
particolare la sua bidimensionalità) e non su soluzioni formali ritenute
eterne, tipizzate, l’architettura di Eisenman vuole far emergere lo
specifico di ogni costruzione, evitando di caricare gli elementi
architettonici di significati già codificati attraverso il linguaggio
classico. Al rischio di implosione che una ricerca autoreferenziale
porta con sé Eisenman oppone però l’idea che l’architettura può essere
funzionale, ben inserita nel contesto in cui si colloca, esteticamente
piacevole, ma che allo stesso tempo essa può e anzi deve anche “parlare
di qualcos’altro”, attraverso l’acquisita capacità di far emergere gli
elementi che costituiscono la sua autentica struttura.