A distanza di dieci anni da “Giuseppe Terragni: trasformazioni,
scomposizioni, critiche”, Quodlibet ripropone al pubblico italiano Peter
Eisenman traducendo Inside Out (traduzione di Maria Baiocchi e Anna
Tagliavini, postfazione di Roberto Damiani). In copertina l’immagine
ormai iconica dell’assonometria a colori di House VI, mentre la
sovrapposizione del ritratto fotografico di un Eisenman ottantenne sui
diagrammi trasformazionali di House II nella quarta di copertina è
contemporaneamente indice della longevità e della modernità di quelle
prime sperimentazioni formali che sopravvivono al tempo, e anzi tornano
di moda. In una intervista sull’ultimo numero di Log, interrogata sulla
scelta di soffermarsi sulla linea genealogica Wittkower- Rowe-Eisenman
nei propri corsi accademici su “Formalisms”, Sarah Whiting, nota come
ancora quel discorso sulla forma sviluppatosi negli anni ‘60 non sia
davvero conoscenza assimilata e comune.
Pubblicato nel 2004 per Yale University Press, Inside Out raccoglie una
selezione di saggi scritti tra il 1963 e il 1988, probabilmente il
periodo più intenso della definizione del pensiero e delle tattiche
progettuali di Peter Eisenman - architetto, scrittore ed educatore. E’
il periodo che segue la discussione della tesi di dottorato a Cambridge e
condensa l’attività allo IAUS di New York, la fondazione di Oppositions
e la costruzione delle prime case, includendo gli accordi e disaccordi
con il mentore Colin Rowe, l’incontro con gli italiani Rossi e Tafuri e
le prime letture di Derrida.
Ciascun saggio ha certo una propria carica singolare e un preciso
contesto di esistenza, ma non è solo la rilevanza dei singoli saggi a
fare di Inside Out un “must” da tenere nei propri scaffali. Più che
contenere saggi, il libro li seleziona come se fossero i capitoli di un
volume coerente nel suo scorrere, indipendentemente dalla loro
precedente collocazione editoriale. Come spiega Roberto Damiani nella
postfazione all’edizione italiana, Eisenman non ha scritto un libro con
lo scopo di stabilire una teoria della forma a priori. Tuttavia, in
Inside Out, saggi teorici, descrizioni di progetti e processi
progettuali propri e altrui, critiche alla condizione architettonica
passata e contemporanea, riflessioni o introduzioni agli scritti di
architetti colleghi, eventi accidentali e non, si riassettano a
posteriori come parti sequenziali di una storia fondamentale
dell’architettura della seconda metà del Novecento. Ovvero, potete
decidere di leggere i saggi pensando che vi apriranno le porte per la
comprensione di edifici come il Leicester University Engineering
Building di Stirling e le 7 Texas Houses di Hejduk, di personaggi come
Philip Johnson o di testi come l’Architettura della Città. Oppure (o
anche) leggerli come soglia al pensiero e all’opera di Peter Eisenman.
Quindi, superata l’introduzione (quella sì, del 2004), il consiglio è di
leggere Inside Out tutto d’un fiato, in sequenza. A partire dalla
triade iniziale dei capitoli su struttura formale, sintassi concettuale
e diagrammi trasformazionali si afferrerà il passaggio – governato dal
ritorno continuo delle coppie Rowe-Le Corbusier e Eisenman-Terragni – da
una critica al funzionalismo del Movimento Moderno agli sforzi
speculativi atti a definire il “vero” modernismo attraverso le analisi
di esempi pre e post bellici – pochi, dice Eisenman – che hanno davvero
interpretato l’episteme modernista in architettura. Tra queste, la
dimostrazione dell’autoreferenzialità della Maison Dom-ino. O attraverso
la riproposizione di momenti che hanno contribuito a smantellare
l’assoluta egemonia del funzionalismo – come i testi, i progetti e
l’operazione intellettuale di Philip Johnson, cavallo di troia del
Movimento Moderno.
Il libro snocciola dichiarazioni-manifesto e si intrattiene su lente e
meticolose descrizioni degli oggetti analizzati, il cui contenuto si
compone di parole e disegni ortogonali e assonometrici, quei diagrammi
di studio e progetto che alla stregua delle argomentazioni verbali
scrivono dense pagine di testo. L’obiettivo in questa prima fase è lo
scardinamento della nozione classica e antropocentrica che investe la
relazione tra soggetto e mondo oggettuale, liberando l’architettura
dall’ansia di rappresentare qualsiasi cosa che sia esterna a se stessa.
Ed è proprio il sistema notazionale e grafico, insieme all’assorbimento
di teorie contemporanee a far evolvere il pensiero di Eisenman verso
l’architettura testuale. Il passaggio si esplicita nel capitolo 12,
“Rappresentazioni del dubbio”.
Diventa allora chiaro che lo scopo dell’architetto scrittore – dopo aver
ridefinito l’architettura modernista postfunzionalista attraverso una
propria strumentale rilettura dell’esperienza moderna - è quello di
fondare una architettura postmodernista che, ancora, si differenzi dal
postmoderno dei suoi colleghi. Per far questo deve metter in campo un
ulteriore sforzo intellettuale che da un lato argomenti “La fine del
classico. La fine dell’inizio, la fine della fine” e dall’altro sposti
l’attenzione dall’oggetto (futile) e dal suo autore al processo
generativo dell’oggetto stesso.
E’ l’architettura testuale, che si basa sulla scomposizione e la
dislocazione, a superare sia il classicismo che il modernismo. Di nuovo,
sia i precedenti storici che il lavoro dello stesso Eisenman sono
“misinterpretati” per tentare di chiarire come l’architettura possa
accettare il testo come propria procedura formale. Così l’opera di Mies,
a cui come per gli Smithson e Stirling è dedicato un intero capitolo di
puntigliosa descrizione, era inconsapevolmente testuale. E anche le
prime case di Eisenman, erano inconsciamente testuali. E’ però iniziata
la stagione, annuncia Eisenman, in cui il progetto si fonderà
consapevolmente sull’idea di un testo che disloca le relazioni e i
significati convenzionali e istituzionalizzati dell’architettura, non
negandoli ma riducendone l’autorità sui processi generativi. L’ultimo
capitolo è quindi un saggio breve ed ermetico intitolato “Blue Line
Text” – cioè l’ultima bozza prima di andare in stampa – e prefigura un
futuro progettuale, quello dello studio Eisenman degli ultimi vent’anni,
di cui oggi siamo testimoni.
E mentre la Città della Cultura di Santiago de Compostela, tra critiche e
apprezzamenti, rimane incompiuta, c’è da un po’ di tempo nell’aria un
ritorno al formalismo delle origini, a partire di nuovo dallo studio di
antecedenti illustri. Così, uno dei libri più recenti di Eisenman è di
nuovo una raccolta dei diagrammi analitici – questa volta ad opera dei
suoi studenti del corso di Yale – di una selezione di Ten Canonical
Buildings 1950-2000 (o The Formal Basis of Modern Architecture
“reloaded”). Inside Out - ricollocato in dialettica proprio con altri
due recenti prodotti editoriali, Ten Canonical Buildings da un lato
(2008) e la pubblicazione tarda (2006) della tesi di dottorato
dall’altro - trasmette quindi un pensiero che si inserisce in un
evidente revival di certe posizioni di cui Eisenman è stato certo il
traghettatore nel dopoguerra, e che passa per la ricomparsa nei progetti
e nelle ricerche di nuove generazioni di studenti e architetti di un
certo tipo di notazione grafica; per un ritorno allo studio “da vicino”
degli antecedenti in un modo strumentale, talvolta opportunistico, ma
allo stesso tempo meticoloso e ossessivo; per un ribadire teorico
dell’architettura come entità assoluta.
Ecco allora che il libro tradotto e riproposto da Quodlibet potrà essere
un altro di quei testi che i “New Ancients” italiani potranno tenere
sotto braccio e su cui riaprire conversazioni che tornano di moda, in un
certo senso con sollievo, ma con l’aspettativa che la resistenza del
formalismo e dell’assoluto disciplinare così come concepito da Eisenman
abbia compiuto una propria maturazione e che si possano compiere
ulteriori salti concettuali. Tra questi, per esempio, la rimessa in
campo dello studio della città da parte dei sostenitori dell’autonomia
dell’architettura. Gli sforzi intellettuali proposti in Inside Out,
infatti, lasciano un vuoto in questo senso e, anzi, sembrano amplificare
la distanza tra le discipline dell’urbanistica e dell’architettura. La
parola città è quasi del tutto assente nei 19 capitoli - se non
nell’introduzione al libro di Rossi – e, quando emergono, le questioni
urbanistiche vengono subito reindirizzate all’interno del dibattito
architettonico. L’introduzione alla versione americana dell’Architettura
della Città, undicesimo capitolo del libro, raggira di nuovo
l’ostacolo. E’ perché, in quel momento, la preoccupazione tutta rivolta
ad annullare la resistenza interna all’architettura ad abbandonare la
propria propensione di rappresentare riferimenti esterni, non lasciava
spazio ad un dibattito esplicito sulla città? Oppure è più corretto dire
che la questione della città in Eisenman è anch’essa interpretata
attraverso le stesse tattiche di dislocazione testuale proposte per la
ridefinizione dell’architettura? Il passo è da fare per una
riconciliazione tra la teoria della forma autonoma e la città reale che,
sia pure definita come artefatto formale autonomo e di per sé
intelligente nella propria adattabilità, è una struttura ancora più
resistente – rispetto all’oggetto architettonico - ad annullare il
proprio rapporto con gli avvenimenti economici e politici che la
coinvolgono.