Pietra dopo pietra pianta dopo pianta Gilles Clément si è costruito una casa: un inno libertario e "giacobino" alla natura.
Gilles Clément ha costruito la sua casa e, intorno ad essa, un giardino (sempre che il termine giardino non suoni già troppo conformista...). Un giardino del quale il lettore vorrebbe, prima o poi, fare la conoscenza: legittima aspettativa, visto che l’autore è uno dei più affermati ed innovativi giardinieri contemporanei. Il libro si intitola Ho costruito una casa da giardiniere (titolo originario Le Salon des berces, letteralmente «Il salotto delle Panaci del Caucaso»). La quarta di copertina sembra promettere il meglio: protagonista sarà proprio quel giardino, di cui Gilles Clément dice: «La mia vita da giardiniere inizia da qui, e qui prosegue e si rinnova perpetuamente». L’attesa è molta: si pensa di entrare nel sancta sanctorum, nel luogo dove è nata l’idea, celebratissima e continuamente riproposta, del giardino in movimento. Si inizia la lettura, la si prosegue, la si finisce: sono poco più di dieci su centoquarantotto le pagine specificatamente dedicate al giardino, sintetiche e telegrafiche: pochi i nomi e pochissime le spiegazioni. In compenso molto sappiamo sul suo creatore, Unico vero Protagonista.
Per Gilles Clément la costruzione del giardino è stata l’occasione per un risentito sfogo planetario: più che di muri, di movimenti di terra e di piante, ci racconta del rapporto con il mondo, coi vicini, con l’Ammiraglio, con la madre e con il padre, molto lontano dal sentire del figlio. Ci parla della perdita dell’antica ed amata casa materna, del peregrinare alla ricerca di un nuovo «habitat», della costruzione, pietra dopo pietra, della casa della Vallée, che non vuole essere un’architettura pianificata, ma un inno alla libertà e alle allettanti proposte dell’architettura organica.
Gilles Clément ci riporta ad un presunto quotidiano di costruttore, di progettista, di giardiniere: la qualità, anche se minacciata dal dilettantismo, la si ritrova comunque sempre nelle filiere del processo evolutivo. Lo sfondo è quello tranquillo della campagna francese, con i campi, i boschi, i piccoli villaggi e le sue «fermes», ma non può mancare qualche tocco di esotismo, come l’infanzia in Algeria o un lungo soggiorno nelle «a posteriori» mitiche risaie di Bali. Certamente dal libro si capisce che soltanto attraverso la conoscenza profonda di un luogo e dei suoi ritmi, con l’osservazione lenta e silenziosa delle piante e degli animali che lo abitano, è possibile creare un buon giardino e forse anche qualcosa di più, un vero e proprio ecosistema. Si tratta però di una sensazione vaga, che rimane sullo sfondo: il primo piano è occupato da persone, donne e uomini, da un pullulare di incontri, di scontri, di provocazioni e di rivincite, da cui capiamo qualcosa di più profondo su chi scrive ma pochissimo sulla sua grande passione. E professione.
Non c’è niente infatti di più intimo di un processo maieutico, a meno che non si sia o poeti o scrittori di professione: nessuno si aspetta tanto da noi giardinieri, per fortuna. È già tanto parlar in modo comprensibile e coerente di giardini...
Gilles Clément ci racconta quella che è stata la sua scelta esistenziale, coraggiosa e certamente combattiva, in continua opposizione a regole, modelli e stili di vita: la metafora della casa, l’esasperazione di un lavoro che vuole contare soltanto sulle proprie forze, anche a costo di spifferi impertinenti, di acqua che non scorre e di angoli che mai sono retti. E lo dimostrano i suoi giardini, volutamente fatti di poco, quasi fossero le sintesi di un lungo processo che parte dalle infatuazioni giovanili e dagli entusiasmi bulimici per le piante fino alle stringate citazioni del poco, quasi del nulla. Il giardino del padre, nel quale lui tanto ha lavorato, è con il tempo diventato il giardino del passato, lo specchio del troppo, il giardino fatto di errori che solo l’esperienza ed il mestiere hanno poco per volta evitati...
Da questo poco, che è figlio di un lungo conflitto, quasi fosse una rivoluzione, Gilles Clément cerca di far capire, in maniera diretta ed indiretta, che è lecito distruggere, combattere. Come diceva Susanna Walton, la grande giardiniera della «Mortella» ad Ischia, da ogni francese esce sempre un rigore girondino e un’intransigenza giacobina, ben lontani dalla sedimentata tolleranza mediterranea. Un atteggiamento, quest’ultimo, che porta ad una visione estremamente aperta, ad un approccio antico di tolleranza e ricco di suggestioni, nel quale la tradizione è forma forte e non rifiutata della stessa progettazione. Nei giardini mediterranei spesso si sentono note di storia antica, nelle quali l’acqua, la pietra, la terra, gli alberi e le fioriture assumono una robusta presenza sinfonica. I contrappunti possono essere leggeri ed ironici e non per forza, come in terra di Francia, conflittuali e soprattutto categorici.
Appena pochi anni fa, nella Breve storia del giardino, Gilles Clément scriveva: «Il primo giardino è quello dell’uomo che ha scelto di interrompere le proprie peregrinazioni… Il primo giardino è alimentare. L’orto è il primo giardino… Il principio del giardino rimane costante: avvicinarsi il più possibile al paradiso». Parole che dopo la lettura di questo libro ci paiono già lontane, quasi parte di un passato. Sono forse il manifesto di una obsoleta memoria?