Recensioni / Tiziana Fusari, l'incomune artista

In mondo a rovescio di una donna che scelse la carta per esprimersi.

 

 

«La sera in quegli anni era silenziosa, lunga e tutta nella mano di mio padre. Prendeva il libro dalla copertina rigida e dai colori scintillanti, la luce tenue dell’abatjour ci sfiorava per posarsi sulle pagine e lui, mio padre, tirava fuori da quei segni neri, misteriosi e muti una storia ogni sera più triste e affascinante: io inseguivo muta il suo racconto fissando quelle righe immobili sul foglio attraverso le quali passava la vita di Pinocchio, del Gatto, di Geppetto e confondevo, chiudendo lentamente gli occhi nel sonno, la vita che era nella stanza da letto nell’odore di mio padre, nella luce fioca, nel silenzio della notte, con il pezzo di legno che diventa bambino, con il gatto e la volpe che mi parlavano. Ancora oggi aspetto che l’incanto si attui, ancora oggi credo che chiudendo gli occhi tutto potrà trasformarsi e il legno mutare in uomo, parlare col gatto, seppellire zecchini sotto la luna, conoscere mangiafuoco e lasciare le stanze silenziose, le luci fioche, le coperte mai troppo calde dell’inverno».

Sono parole scritte alla fine degli anni ottanta del Novecento da Tiziana Fusari (1951-2012), un’artista non comune alla quale Quodlibet dedica un’opera aperta alla conoscenza e allo stupore, lungo una traiettoria saettante e slabbrata, e pure sorprendente - altrimenti non saremmo qui a scriverne - in una sorta di filo teso della memoria e della fantasia, dell’attenzione alla tensione della vita «instabile», dove «lo strappo» è la regola, «l’inconsistenza» è il pretesto di un congegno affilato e pronto a colpire come una pallottola al cuore.

Allora il neofita lascia il passo alla meraviglia dei gesti e dei colori, delle forme e dei materiali che sporgono dalla pagina, circoscritti da una semplicità tutta originale (il timbro che abbina il disegno unico con la serialità dello stampo), l’aggressione provocatoria del già visto con sostanze e effetti totalmente spiazzanti di parole, interrogativi, ricami di un «lessico familiare» dissacrante e disposto allo scoronamento del consueto, «cartoline» destinate a un ricevimento dei sensi sovrapposti e sovraesposti all’eresia contaminata, con una «grammatica della fantasia» destabilizzata dall’eccezione alla regola codificata. Oppure ci si ritrova nel gioco del ricamo mobilissimo e apparentemente piano di un cotone che sa di un’infanzia dorata solo idealmente o nel cartiglio su lana di sciarpe parlanti e pensanti, di fili spezzati tra agende poetanti (il cielo è sporco di nuvole in viaggio, vado a zonzo un po’ catafratto e il cotone mi avvolge distratto, a piccoli passi le parole accostano i pensieri, pensieri croccanti di sole cadenzano le passeggiate delle sere d’estate….).

Tiziana Fusari sorprende a ogni pagina di questo viaggio longitudinale che non esclude lo scambio di opere con altri artisti, un Lexicon sinestetico di corpi, di forme, di calligrafie tra terre, colle, carte, indistinguibili reperti capaci di attrarre i vivi in grado di dialogare con i morti, talismani e involti dove ciò che conta non è il volto ma lo spazio, occupato nel tempo della percezione, il volume misterioso della scoperta incerta e vaga, ma presente eccome. Non manca nemmeno Balzac, con uno straordinario studio visivo sulla Commedia umana, colla, acqua, garza su nastro di carta modello, pigmenti e foglia d’oro, un effetto dirompente di immagini animate in un turbinio di figure coloratissime contrassegnate da una precisione quasi immacolata, eppure curiose, improbabili, oscillanti e sospese quasi a sfidare l’attrito inevitabile dell’esistere, dell’essere nate. Le parole si trasformano in immagini, in disegni, in fotografie, in una ricerca «disordinata» che si placa solo nella dimensione della misura intellegibile o nell’aura di un interrogativo così personale che ognuno è chiamato a fornire - se vuole - una propria interpretazione, una propria possibile lettura, ma non è necessario cogliere un’inquietudine latente, un senso di oppressione, di vuoto, di ritualità scomposta, di fuga violenta e liberatoria, di un mondo adulto distante e soffocante, abulico, di versatile mortalità, con i rossi accesissimi, i contrasti sopraffini, nel dettaglio esasperato da sottolineature ineludibili. Una santificazione del quotidiano, avvolta nella tecnica mista e abile di un’artista capace di essere corrosiva e leggera, fugace e ironica, ingombrante e allusiva, eretica e critica, prigioniera della sua libertà.

«Abbecedario» è una sorta di voce inconsueta ludica e pregna di sussulti, di sarcasmi forti e scanditi, di gestualità inattese, di teste sospese. Così come la serie «Vele» suona la postura di un corpo sgraziato e non, offeso, precario, straniato, senza volto. Corpi che escono dalla tela: frate, donna, travestito? Non servono le risposte, contano le domande. Chi sono questi volti indecifrabili che appena immaginiamo? Costretti o intenti a assumere pose difensive, ritrose, sghembe, donne mascoline, uomini kafkiani, femmine travolte da un destino già scritto, addirittura uncinate e monche: di che cosa?

Nella fissa frontalità del mistero acuto e curato con il piglio esatto e difforme di tecniche mature e visioni mobili, Tiziana Fusari «spacca», come direbbero i giovani di oggi, colpisce nel segno, sezionando una realtà dura, frantumata, trafitta nei valori che si trasformano nella mostruosa rifrazione dell’imprevedibile e abnorme rischio del quotidiano. E così gli innocui lampi astratti che aprono «Rewind» (a cura di Mauro Mattia, pp.357, euro 28) dotati di un fascino quasi familiare, illuminano «il mondo a rovescio di Tiziana Fusari», un mondo che avrebbe fornito ulteriore evoluzione - potente – dialogante, straripante umanità rappresa.