Una circolazione a circuito interno. Così Romano Luperini definisce il
destino della saggistica letteraria. Ed è curioso, e forse allarmante,
perché Luperini è da oltre quarant’anni un instancabile scrittore di
saggi sempre al confine tra impegno etico-politico e impegno letterario, sin dai suoi primi
lavori sul Verga, sempre in un’ottica ampia che comprende la condizione
intellettuale, lo stato della letteratura, la critica del presente. Con
l’ultimo libro, Tramonto e resistenza della critica
(pubblicato da Quodlibet), a 74 anni vuole chiudere i conti, «per le
ragioni dell’età — dice — e per il logoramento che questa comporta». E
aggiunge: «Per chi si scrive e per cosa si scrive sembra diventata
questione superflua». Il paradosso è che questo libro (di saggi) è anche
un’apertura al futuro della letteratura nei suoi rapporti con la
società.
Questa apertura sembra favorita, secondo Luperini, dal declino del postmoderno,
obiettivo polemico molto tenace nelle sue indagini, e dal ritorno di
uno sguardo più realistico capace di leggere nella concretezza il
contesto sociale e storico: è quello che provvisoriamente è stato
definito l’«ipermoderno». Ne parliamo da Siena, dove Luperini ha
insegnato per anni.
«In un’epoca di contraddizioni materiali come la
nostra, con le sue urgenze politiche ed economiche, è entrata in crisi
l’idea postmoderna che esista solo il linguaggio: il tempo della
leggerezza, del nichilismo ilare non ha più senso. Tornano dunque le
tematiche non del neo-realismo, che aveva altre radici, ma di un nuovo realismo e di un nuovo modernismo erede del primo Novecento europeo».
L’esempio italiano più significativo, secondo Luperini, e anche il più
recente è Francesco Pecoraro, con il suo romanzo La vita in tempo di pace: «Racconta una giornata in cui si riflette un’intera vita: sullo sfondo c’è in tutta evidenza l’Ulisse di
Joyce, ma anche Céline e Gadda… È un romanzo di grande impegno, un
romanzo esagerato, con forzature e prolissità, ma offre un prisma di
storia privata e pubblica, dal dopoguerra a oggi, con una sensibilità
addirittura idiosincratica e viscerale reattività».
Un altro nome è quello di Walter Siti: «Con Troppi paradisi
si è spinto al limite estremo del postmodernismo, quasi a un punto di
rottura, con un tono cinico-ironico, di nichilismo allegro, facendo
agire il linguaggio televisivo e quello alto. Poi con Resistere non
serve a niente ha recuperato una sorta di personaggio balzacchiano a
tutto tondo, ponendosi in una prospettiva decisamente ipermoderna».
Per
definire un’epoca bisogna individuarne la dominante. Negli anni Ottanta
vigeva il verbo combinatorio e metaletterario anche in Italia: «Il
nostro — dice Luperini — è un Paese più realista del re: prende sul
serio tutte le mode e le esalta, e ciò avviene soprattutto nella
narrativa. Il nome della rosa ha
dato la stura a tutto il postmodernismo, ha aperto in modo
indiscriminato al noir e al giallo: ora per fortuna il riferimento alla
letteratura di genere è in crisi. Ma il postmodernismo italiano ha avuto
altri rappresentanti importanti: l’ultimo Calvino, Tabucchi, Tondelli,
fino ai cannibali e ai Wu Ming. E ancora oggi continua: si pensi a Una storia romantica di
Antonio Scurati, che riprende il romanzo storico, il romanzo
“popolare”, mescolando Foscolo e Nievo, Manzoni e Montale, Valéry e
Dumas».
Sull’ipermodernismo come passaggio a un’epoca nuova della narrativa italiana,
si sofferma Raffaele Donnarumma in un libro uscito di recente per il
Mulino. È il risultato di un dibattito non solo teorico aperto dalla
rivista «Allegoria» dello stesso Luperini. In questo solco vengono
segnalati autori di generazioni diverse: «È un’area molto variegata, che
ha affinità con il documentarismo cinematografico, e che sembra
abbastanza unitaria non tanto sul piano formale quanto sul piano
tematico-referenziale: penso, per esempio, a Campo di sangue di Eraldo Affinati e a L’abusivo di
Antonio Franchini, ma anche ai nuovi sviluppi di certi cannibali come
Aldo Nove e Nicolò Ammaniti, che hanno vissuto un passaggio dal trash e
dal noir, dall’immaginario pubblicitario (legato al consumo televisivo e
all’ipermercato), verso un interesse per l’Italia storica e
riconoscibile o per la realtà contemporanea, come quella del precariato
(vedi Mi chiamo Roberta di Nove). Erano loro gli eredi del
postmodernismo di Tondelli, ma adesso sono diventati altra cosa».
Si sta parlando di libri e di prospettive molto diverse anche sul piano dello stile:
«Certo, ma il metodo è sempre quello di far parlare la realtà e
l’esperienza: sia essa quella di un viaggio ad Auschwitz, dell’omicidio
di un giornalista amico, della condizione di un giovane in un paese di
camorra, del lavoro giovanile o della criminalità organizzata. Sono
tendenze documentarie che già negli anni Novanta si rifacevano al
reportage giornalistico».
A proposito di distanze generazionali: spunta
sempre, nei saggi di Luperini sulla narrativa, il nome dell’ex
neoavanguardista Nanni Balestrini, accanto a quello del giovane Roberto
Saviano. Un ottantenne a fianco di un trentacinquenne. «Gomorra,
pur con i suoi limiti, compresa la scrittura approssimativa e spesso
enfatica,è stato un momento di svolta: un libro nuovissimo, che metteva
al centro un mondo referenziale che fino ad allora — dopo un periodo in
cui la realtà andava scritta tra mille virgolette — era guardato con
sospetto: Gomorra segnalava che, diversamente da quel che alcuni
teorizzavano, il mondo materiale esiste, con le sue emozioni e i suoi
traumi. La denuncia è l’altra faccia di questo realismo rinascente dalle
ceneri del postmoderno. Con Saviano il “bene” e il “male” tornavano a
essere percepiti come tali e la marginalità si andava organizzando nella
forma della denuncia. Sandokan di Balestrini ha non solo lo stesso
argomento, ma anche la stessa vocazione epica, declinata in forma
diversa, attraverso il fluire di un parlato privo di punteggiatura, con
la ripetizione di alcune parole-chiave che cambiano di lassa in lassa».
Saviano ha fatto tornare in auge anche un’idea che sembrava superata,
quella dell’impegno intellettuale nella società. Il nome di riferimento
è quello di Pasolini: «Anche questa è un’eredità del moderno. Si tratta
però di un nuovo tipo di intellettuale: non è Pasolini, Fortini o
Sciascia. Più che di impegno, parlerei di partecipazione civile, un modo
più periferico, consapevolmente marginale. Mentre Pasolini sapeva di
poter influenzare la società e sapeva di essere centrale, una sorta di
legislatore, i nuovi lavoratori della conoscenza sono degli outsider,
dei dilettanti sprovvisti di autorità, che hanno delle reazioni
istintive rispetto alla realtà: trovano la loro ragion d’essere nel
fatto di rappresentare persone e istanze periferiche che di solito sono
dimenticate. Il guaio è quando diventano invece centrali, cioè
mediatici, come è successo a Saviano, che da intellettuale delle
periferie escluso dai grandi giochi e ricercatore precario che andava in
scooter sui luoghi del crimine è diventato un personaggio televisivo.
Rischiano allora di perdere tutta la loro efficacia originaria».