Recensioni / La valle dei ladri

“Dare indietro il destino”, come si restituisce un latte scaduto o una gonna mal cucita, è l’idea delirante che transita a un certo punto per i crani degli abitanti di bassomondo (con la minuscola), paese fantastico in cui Ermanno Cavazzoni ambienta La valle dei ladri (già pubblicato da Einaudi nel 1999 col titolo Cirenaica, ora rivisto e corretto dall’autore).
Delirante fino a un certo punto. Intanto perché a chi non mai venuta almeno una volta nella vita? E poi a bassomondo non si sta un gran bene, tutti truffano tutti, c’è penuria di cibo e di elettricità, ci si arriva in treno (come? da dove? non si sa) e si è subito attorniati da una ghenga di falsi parenti e false fidanzate, falsi assessori e falsi sindaci che mirano ai bagagli e al portafoglio. Tutto è falso, povero, bizzarro ma accolto senza stupore. In compenso spopolano le dicerie, le fantasticherie, le leggende, le tradizioni, le pseudoreligioni (calma, lettore: Cavazzoni non è allegorico, niente satira politica in vista): affabulazioni e descrizioni sullo stesso livello di realtà. Che venga voglia di restituire il destino ai suoi supposti autori (secondo una delle dicerie più accreditate, gli abitanti delle città dell’altopiano, dèi, ingegneri, burattinai maldestri) non è poi più irragionevole che l’usanza di mostrar loro il deretano, come fa Macario, ammirato anacoreta, o spedire al cielo un sifilitico in pallone con le pudenda impestate bene in vista, a spregio.
Tanto più che da bassomondo non si esce (anche se c’è chi sparisce), l’unico cinema proietta spezzoni di un film incomprensibile, Cirenaica, le donne passano il giorno a escogitare truffe sessuali e la notte a sospirare nel sonno, ogni legame sociale – famiglia, istituzioni – è, peggio che dissolto, simulato; al punto che il lettore, esilarato dalle continue invenzioni che si elevano da un fondale, come dire, deliziosamente depressivo, finisce per sentirsi lui un po’ in colpa per quanto si diverte allo spettacolo. Sui bassomondi di Kafka non si riesce a ridere, qui è un po’ meglio e comunque potrebbe andare peggio: metti che riesci a evadere e ti ritrovi alla Stazione centrale di Milano…
Ma “dare indietro il destino” è anche un esempio del cozzo tra le due maniere che fanno lo stile di Cavazzoni: aulico e orale insieme. Da una parte un narratore incerto, che insiste sulla sua posizione in scena (io stavo, io penso, io credevo, come non fosse ben sicuro del posto che occupa tra lingua e mondo), si ripete, si corregge (questo l’ho già detto; questo non lo avevo detto; lasciamo perdere; ma torniamo…), procede per slittamenti e improprietà (uno che segue un altro viene detto seguace, poi allievo; di un sedicente responsabile delle ferrovie si dice che è francese, poi che si chiama Marsiglia come il sapone, poi che ha la mania della pulizia e spazza ossessivamente l’ufficio, poi se ne denuncia la libidine allegando che va sempre a scopare tra le gambe delle donne). Dall’altra un prosatore affabilmente barocco, sinuoso nel periodo, puntiglioso nel lessico e nell’aggettivazione, appena un po’ sciroccato ma attendibile, perfino cancellieresco quando è il caso (si pensi; apostrofato…): uno che aveva studiato, anche se non sa più perché.
L’identità, infatti: questo è il problema. Il protagonista si dice Paolo perché così lo chiama una bella adescatrice appena scende dal treno. A bassomondo si fantastica che un tempo, quando la città era prospera, si praticava una forma di “turismo radicale” che consiste nel recarsi in un posto e viverci davvero come se si fosse di lì: monaco in Tibet, per esempio, ossia “condividere l’esistenza dei monaci fino a essere considerato uno di loro”. Tra vita e pseudovita la distanza si assottiglia. A restituire il destino te ne tornerebbe indietro un altro non diverso. Cavazzoni evita il tragico ma anche il comico aperto, con la sua catarsi liberatoria, espulsiva. Solo nel limbo intravede un barlume di saggezza, incantata perché disincantata.