Recensioni / L'ebraismo, luogo fluido dell'occidente secondo l'architetto Zevi

Il libro Conservazione dell'avvenire di Luca Zevi (Quodlibet, 186 pp., 16 euro) contiene in una sintesi stratificata e labirintica le riflessioni pluridecennali dell'autore. Tutte le strade imboccate convergono tuttavia su un tema centrale: il rapporto reale e possibile fra tradizione culturale ebraica e architettura o urbanistica attuali.
Questo rapporto è a sua volta unitario e polimorfo: ha implicazioni storiche, estetiche, morali e politiche. In quanto architetto e urbanista, Luca Zevi vive il suo lavoro come un problema urgente di moralità pubblica. Se è vero che la città, con la sua struttura, la forma e la funzione dei suoi edifici, è una delle fondamentali invenzioni della civiltà umana, il presente e il futuro destino di questa invenzione non può che tenere in stato di allarme. Nel flusso del tempo storico, che contiene una molteplicità di tempi eterogenei, paralleli o incrociati, divergenti o convergenti, il tempo della decisone è rora", l'hic et nunc, il presente. Questa idea antica è ricomparsa con una nuova urgenza politica nelle "Tesi di filosofia della storia" di Walter Benjamin, scritte nel momento in cui il nazismo si manifestava come una minaccia radicale per l'intero destino della civiltà: perché "anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se il nemico vince", scriveva Benjamin. Ogni sconfitta e catastrofe, ogni violenza, sopraffazione e amputazione dell'umano hanno forza retroattiva, colpiscono il passato, lo invadono. L'intolleranza e lo sterminio di oggi fanno riaffiorare, rafforzano quelli di ieri e di sempre: si alleano con tutte le violenze della storia, le moltiplicano e le espandono.
Ho incontrato per la prima volta il giovane Luca Zevi a metà degli anni Settanta. Aveva circa venticinque anni, io qualcuno di più. Mi fu presentato da Elsa Morante che lo aveva conosciuto come appassionato lettore del suo romanzo La Storia, in cui compaiono pagine indimenticabili sulla deportazione degli ebrei a Roma e sul bombardamento del quartiere San Lorenzo. In quegli anni chi leggeva il romanzo della Morante poteva anche aver letto le tesi di Benjamin sul corso storico, sulla sua continuità negativa e sulla possibilità "messianica" di interromperla, interrompendo il dominio della violenza.
Dopo aver visto un paio di volte Luca Zevi quarant'anni fa, l'ho incontrato di nuovo solo recentemente, e ora leggendo questo suo libro mi sembra che niente sia andato perduto delle cose migliori che riuscimmo a capire in quegli anni lontani. Non è certo un caso se proprio quel giovane ha realizzato, da adulto, il Memoriale ai duemila caduti del bombardamento di San Lorenzo e se ha progettato il Museo Nazionale della Shoah (sulla cui localizzazione si discute in questi giorni: a Villa Torlonia, come doveva essere, o invece all'Eur?). Conservazione dell'avvenire è l'autobiografia intellettuale e il manifesto morale, prima che estetico, di un architetto straordinariamente consapevole di ciò che la sua professione significa e può fare per il miglioramento dell'autocoscienza pubblica.
Molto spazio del libro Zevi lo dedica a riassumere efficacemente, per scopi non accademici ma attuali e progettuali, le caratteristiche della tradizione culturale ebraica e il contributo che può dare oggi alla concezione di un habitat umano flessibilmente orientato "sulle esigenze d'uso più che su regole compositive". Dobbiamo saper conservare nel presente, in vista del futuro, correggendo ogni razionalità progressiva rigidamente consequenziale e monolineare.
Non si tratta di opporre progresso e antiprogresso, ma di arginare pulsioni e volontà di potenza orientate a una produttività che ha bisogno di liberare forze distruttive perpetuando una "sopraffazione dell'uomo sull'uomo e dell'uomo sulla natura".
La tradizione culturale ebraica, ricorda Zevi, è fatta di mobilità, esodi e diaspore, ha un carattere policentrico e non stanziale: "Gli ebrei non hanno lasciato, nel corso di due millenni, duraturi segni fisici della propria presenza in questo mondo: ciò che hanno prodotto è organicamente mobile, soft, a partire dal Libro, unico monumento in senso proprio che hanno potuto consentirsi". Il loro stesso edificio più caratterizzante, la sinagoga, ha la sua definizione essenziale non in quanto edificio, ma in quanto luogo reso sacro dalla presenza, dalla custodia, dalla lettura e dal commento delle Scritture. Più che una costruzione, la sinagoga è il compimento di un'attività rituale, è lettura in comune dei testi su cui si fonda e si riconosce, ogni volta di nuovo, l'identità di un popolo.
Questa attività non ha in sé bisogno di un territorio, non ha confini discriminanti.
Perciò un monumento che ricordi le vittime della Shoah non può che essere un monumento a tutte le vittime. Questa memoria non perpetua un ricatto, ma una promessa formulata in termini universalistici, i soli su cui possa fondarsi l'attuale ragione di essere di ogni religione particolare.
L'insistenza di Luca Zevi sulla modernità, sull'attualità della tradizione ebraica nelle sue diverse formulazioni, non ha bisogno di essere giustificata. Quella tradizione, anche grazie a coloro che hanno voluto interromperla, superarla, tradirla o ritradurla, è entrata d'autorità come mai prima nella cultura del Novecento: con Freud, Einstein, Kafka, con i maggiori critici letterari e filosofi del linguaggio, da Wittgenstein a Benjamin, Spitzer, Auerbach... Più recentemente, nessuno ha avuto in questo campo il prestigio di George Steiner e Harold Bloom, nei cui libri il culto ebraico della scrittura e della lettura si è riproposto in forme nuove e polemicamente attuali.
Nelle pagine finali del suo vademecum morale dell'architetto, Zevi evoca l'evento politicamente catastrofico che 1'11 settembre 2001 ha segnato il passaggio dal Novecento al nuovo millennio. In quell'evento carico di significati simbolici e di ammonimenti storici, la creatività prometeica e la distruzione apocalittica si sono incontrate.
"Quando le televisioni di tutto il mondo hanno trasmesso le immagini forse più celebri della storia, il grande compositore tedesco Karlheinz Stockhausen ha definito la distruzione delle Twin Towers a New York, che quelle immagini documentavano, "la più grande opera d'arte di tutti i tempi". Il musicista ha detto più tardi di provare orrore per quelle parole. Mi sembra tuttavia che la sua esclamazione sia più significativa del suo pentimento. Che nell'estetica d'avanguardia fosse presente un potenziale distruttivo e autodistruttivo, si era già capito.
L'autocritica culturale che l'occidente ha compiuto nel Novecento liquidando il suo passato e idolatrando l'astrazione costruttiva, la pura coerenza formale e la tabula rasa, è sembrata a volte una virtù creativa, ma rivela nelle parole di Stockhausen il suo esibizionismo estetico ottusamente criminoso. L'autonomia feticistica attribuita alla forma e alla sua spettacolarità è un rischio che continua a incombere sulla produzione architettonica contemporanea.
Con il suo viaggio nella tradizione ebraica, che non ha lasciato monumenti ma ha coltivato nel modo più inventivo l'attualizzazione della memoria, Zevi guarda al futuro. Per "conservare l'avvenire" bisogna avere un passato da redimere, oltre che un presente capace dí interrompere il contagio dell'umiliazione e della violenza.