Recensioni / Faccia a faccia con gli scrittori, lontano dal luogo comune

È veramente «un piccolo canone della grande letteratura della nostra epoca» guidato da un gusto sicuro ed esigente, come scrive Remo Ceserani nella sua prefazione, quello che si squaderna in Maestri di finzione (Quodlibet, pp. 624, € 28,00), il volume in cui Francesca Borrelli, cocuratrice dell’inserto Alias Domenica di questo giornale, ha raccolto le più significative fra le interviste a scrittori che ha realizzato nella sua carriera, tutte apparse negli anni sulle pagine culturali del manifesto e alcune riproposte qui con necessarie integrazioni di parti mancanti. Un canone che riunisce ben quarantatré scrittori: nomi del calibro di José Saramago, Ōe Kenzaburō, V.S. Naipaul, David Foster Wallace, Jonathan Franzen, Julian Barnes, Javier Marìas, Agota Kristóf, Don DeLillo, sempre sollecitati a partire dalle loro opere, da quanto del loro mondo di valori (e del loro rapporto con la realtà e le dinamiche della finzione letteraria) emerge dai testi scritti. Uniche eccezioni a una linea di gusto orientata con decisione sulla narrativa, come genere il cui aspetto fondamentale «è quello di raccontare una storia» (per dirla con il Forster di Aspetti del romanzo) e su autori non italiani sono il colloquio con il poeta Derek Walcott e i due con Anna Maria Ortese. Nelle sollecitazioni dell’intervistatrice è sempre irrinunciabile l’idea che l’incontro con l’autore non possa fare a meno di nutrirsi della condivisione di uno spazio e un momento comuni, vale a dire del faccia a faccia, spesso e preferibilmente sfruttando la contingenza dell’uscita italiana di una nuova opera dell’intervistato; situazione che permette un approccio fresco al suo pensiero letterario, anche se mai lontano da un taglio storico, fondato sulla solida conoscenza del suo lavoro precedente.  
L’incontro con l’autore è dunque prima di tutto incontro con i testi, focalizzato in un’esperienza di lettura che viene poi restituita allo scrittore mettendolo di fronte alla propria stessa parola incarnata sulla pagina: senza remissività né cedimenti alle tante retoriche fiorite intorno al misterioso atto della scrittura e alla responsabilità del creatore. La ricerca dello scarto fra l’intenzione autoriale e l’effettiva realizzazione sulla pagina, con le risonanze e gli effetti anche inopinati e incontrollabili che si scatenano nella mente del lettore, si esplica per Francesca Borrelli in una vera war against cliché, una guerra contro i luoghi comuni, che la letteratura ha il potere di piegare ai propri significati oppure di riscattare; una lotta condotta senza parteggiare per l’una o per l’altra immagine che gli scrittori (creature naturalmente votate a un certo inesorabile narcisismo) diano di sé, anche se la passione della lucidità che muove le domande di Francesca Borrelli sembra dirigere le sue simpatie più al Saramago che rivendica il controllo totale sulla sua opera che a un Paul Auster affezionato all’eterno luogo comune del narratore reso schiavo dei suoi personaggi, che lo conducono dove lui non avrebbe mai pensato. È lei stessa, introducendo Maestri di finzione, a segnalare che negli ultimi anni si è molto ammorbidita la sua iniziale militanza a favore di una netta separazione fra il vissuto degli autori e l’interpretazione delle opere; ma è pur sempre chiaro che anche nell’epoca della comunicazione 2.0 e della supremazia dei social network il lettore non può mai sottrarsi alla dimensione primaria che compone l’esperienza di un libro, alla lotta solitaria con il testo, ingaggiata in un confronto che è prima di tutto conoscitivo ed etico. Nella ricchezza di incontri e di esperienze di lettura rappresentata da Maestri di finzione, il centro anche geografico tocca agli americani, con un nucleo significativo: Don DeLillo, intervistato per ben sei volte a partire dal capolavoro Underworld.  Dietro la questione dell’autonomia di una creazione di finzione si nasconde però altro: il problema del controllo sulla realtà da parte dell’io, delle emergenze dell’inconscio sulla pagina, dell’influenza delle contingenze storiche e di quel «mistero» probabilmente «interno al cuore stesso della forma romanzo, così come è al cuore della poesia» (DeLillo). È anche per questo che nulla è più estraneo a Maestri di finzione della pretesa di possedere in maniera univoca e definitiva il senso delle opere di cui parla, e questo atteggiamento è un ulteriore segnale di rigore. Così come la volontà di chiarezza non si arresta di fronte alle ubbie e alle reticenze degli autori e ne sollecita invece i momenti di contraddizione: si vedano per esempio  le reazioni così diverse da parte di Robbe-Grillet e di DeLillo quando vengono stimolati a proposito della psicoanalisi.
L’intervista, quale forma di ascolto e servizio, si arricchisce dell’intreccio fra le diverse sensibilità delle parti in gioco. Le qualità che attraggono Francesca Borrelli in uno scrittore sono lo humour, tanto distaccato e sottile (Saramago) quanto dissacrante (Vonnegut), il virtuosismo non spinto al punto da divenire cerebrale, la capacità di penetrazione storica quando l’interazione fra i personaggi veicoli non una ideologia irrigidita ma una interrogazione infinita sull’umano, rendendo il testo non tanto un riflesso quanto una risposta alla pressione minacciosa dell’epoca. Mentre da nulla si dovrà rifuggire come dalle «sterili provocazioni» e dall’«ossequio conformista alle mode del momento».
Lo stile è una forma di possesso della lingua e del mondo che a volte si riflette nell’atteggiamento umano dello scrittore: nei ritratti premessi a ogni incontro, Francesca Borrelli coglie dettagli che proiettano un valore di verità ben oltre l’aneddotica legata al momento: la faticosa ritrosia di Agota Kristóf, lo «spirito invidiabile in una corporatura imponente» di Toni Morrison, la spilla shakespeariana di Marìas con una chiara funzione di amuleto, il dattiloscritto di Body Art di DeLillo, che evidenzia come «il più formidabile cantore delle nostre ossessioni tecnologiche aveva varcato il nuovo millennio facendo a meno del computer». Incontri come questi rivelano come una delle poche cose di cui solo e unicamente la letteratura possa farsi carico sia ancora e sempre creare fra i due distanti mondi di autore e lettore «un’intimità non superficiale» (Wallace). Che è il nucleo di senso da salvare, oggi più che mai, in questa necessaria impresa di salute.