Conosciamo già la fine che ci aspetta? In Vie di scampo, libro di
ricordi e ruminazioni più o meno autobiografiche, Graham Greene avanzò
l'ipotesi che la finzione narrativa sia una sorta di memoria preventiva.
Lo fece portando l'esempio di Zola, il quale, descrivendo la disgrazia
di un gruppo di minatori imprigionati nelle viscere della terra e uccisi
dall'aria avvelenata, avrebbe prefigurato la propria morte causata
dalle esalazioni di una stufa a carbone. Meglio che un autore non
rilegga i propri libri, ammonì Greene, possono contenere troppi indizi
di
un futuro felice. Casi simili se ne contano parecchi e anche a voler
ragionevolmente dubitare che gli scrittori siano davvero dotati di
simili capacità divinatorie, l'idea che il loro futuro replichi le
storie che raccontano è comunque di vitale importanza per la formazione
dei miti letterari.
Un esempio illuminante in questo senso è quello di Venedikt Erofeev:
scomparve nel 1990 per un cancro alla gola le cui premonitrici
avvisaglie sembrano contenute nelle sgozzamento dalle reminiscenze a dir
poco kafkiane che serve da cruento finale a Mosca Petuski poema ferroviario. Molto si è speculato sulla macabra coincidenza e non senza ragione.
Erofeev, inafferrabile poeta della vodka, è infatti leggenda, l'ultimo
mito letterario della Russia sovietica, e quando si è leggenda, simboli,
premonizioni e significati più o meno riposti spuntano senza posa.
Tutto acquista una luce speciale, sublime, incluse le beffe del destino,
anzi soprattutto le beffe del destino. Come restare indifferenti, per
dirne una, di fronte al fatto che l'opera alla quale Erofeev deve la sua
grande popolarità venne pubblicata per la prima volta in forma ridotta
su una rivista chiamata «Sobrietà e cultura» e presentata ai lettori
come un contributo
fondamentale alla campagna contro l'uso dell'alcol promossa da Gorbacév?
L'impropria riabilitazione, avvenuta a cavallo tra il 1988 e il 1989,
anticipò di un anno la scomparsa dell'autore (già malato da tempo) e la
definitiva dissoluzione dell'Unione Sovietica. In precedenza il poema
ferroviario di Erofeev aveva visto le stampe soltanto all'estero; era
apparso prima in Israele nel 1973, in una rivista di emigrati, per poi
raggiungere Parigi, dove fu pubblicato sia in francese che in russo, e,
qualche anno dopo, nel 1980, il mondo anglosassone.
La prima traduzione italiana, intitolata Moska sulla Vodka, risale al
1977 e la si deve a Pietro Zveteremich. Un quarto di secolo dopo
arrivarono quelle di Piero Caramitti e Gario Zappi, il che significa che
quella appena mandata in libreria da Quodlibet (pp. 201, euro 15,00) in
occasione del settantacinquesimo anniversario della nascita di Venedikt
Erofeev è ben la quarta versione. Tanta abbondanza non è affatto priva
di senso, considerato anche che l'ultima in ordine di tempo è firmata da
Paolo Non, le cui traduzioni portano sempre il segno caldo e
inconfondibile della sua cantilena di scrittore e lettore, una voce solo
in apparenza stralunata e stolida, ma nei fatti sorniona e ricca di
contrappunti, di scelte lessicali mai banali e spesso ardimentose.
Già nell'incipit salta agli occhi una sostanziale differenza coi
predecessori: «Tutti dicono: il Cremlino, il Cremlino. Con tutto quello
che ne ho sentito dire, non l'ho mai visto. Quante volte ormai (mille
volte), con addosso il ciclone o l'anticiclone ho attraversato Mosca da
nord a sud, da occidente a oriente, dall'inizio alla fine, da una parte
all'altra e a casaccio, non l'ho mai visto neanche una volta». Ciò che
Nori chiama ciclone e anticiclone nelle altre traduzioni trovava
soluzioni decisamente più neutre. Zveteremich proponeva «ubriaco o in
piena spighetta»; Caramitti,
«sbronzo o con la gola secca»; Zappi, «dopo aver trincato o prima di
avere smaltito una sbornia». Le ragioni di una scelta tanto diversa
emergono evidenti nella prefazione (somionamente svagata anch'essa),
quando Paolo Nori ci rivela che «i russi hanno quaranta verbi per dire
"ubriacarsi"», una cosa che viene facile credere se si pensa alla famosa
massima di Majakovskij per cui sarebbe «Meglio morire di vodka che di
noia».
In ogni caso, qualunque obiezione sarebbe pura accademia. L'esistenza di
ben quattro traduzioni per un testo tutto sommato recente ha senso non
soltanto perché Mosca-Petuski si apre a molteplici interpretazioni,
quanto perché questa molteplicità è parte integrante della natura
dell'opera, al modo in cui è stata concepita e per chi è stata
concepita. La sua gestione, come anche la vita di chi la scrisse, è una
storia incerta, nebbiosa. È datata in calce «Autunno dell'anno 69» ma
pare risalga all'anno dopo. Stando a una delle storie che si raccontano,
Erofeev
la concepì in una delle sue tante dimore di fortuna, i vagoni della linea Mosca-Petuski che stazionavano su un binario morto.
Secondo altri, l'avrebbe invece scritta al capezzale del figlioletto
morente di appena due anni. Certo è che la scrisse per pochi, per una
ristretta cerchia di amici che potevano facilmente riconoscersi nei
personaggi nominati, nei pensieri, nelle situazioni. La scrisse, cioè,
come si scriveva in quei tempi e in quei luoghi ovvero senza neppure
sognarsi un editore, un libro stampato, una larga diffusione. Fu scritta
per esistere nel circuito sotterraneo e precario del samizdat, una
sorta di anticipazione sovietica del self-publishing (al netto
della censura di regime, ovviamente). Servendosi di carta carbone,
l'autore scriveva in più copie la sua opera e la distribuiva agli amici,
i quali, tra i mille rischi che possiamo immaginare, allargavano il
cerchio producendo altre minute o addirittura mandando a memoria il
testo. Un artigianale metodo di condivisione per nulla privo di
efficacia, tanto che il samizdat contava più lettori di quell'editoria
ufficiale.
Mosca-Petuski fu tra i testi più letti e favoleggiati di questa
letteratura clandestina. Lo scrittore Popov lo ha spiegato con il fatto
che Erofeev, «diversamente da altri scrittori, non è venuto dal popolo,
ma nel popolo è rimasto». Per venti anni, non fece che bere e vivere da
vagabondo e disoccupato, sperperando se stesso, il suo talento, la sua
erudizione, finché un bel giorno non tradusse in poema la miserevole
odissea di un uomo che porta il suo stesso nome, un uomo che dopo avere
perso un lavoro, uno dei molti ai quali si è dedicato svogliatamente,
sale sul treno che va da Mosca a Petaki. In teoria, il viaggio , è
tutt'altro che epico, poco più di un centinaio chilometri. Ma per
Erofeev, Petaki rappresenta la culla di ogni bene, è una fantasia
paradisiaca (e perciò irraggiungibile) dove gli uccelli non tacciono
mai, il gelsomino è sempre in fiore e il peccato originale non tormenta
nessuno. In questo eden forse mai perduto e sicuramente mai ritrovato,
Erofeev è atteso da una «ragazza con gli occhi bianchi, un bianco che
tira al bianchiccio, questa amabilissima sgualdrina, questa biondissima
diavolessa» e, oltre a lei, un bambino, «il più paffuto e il più mite di
tutti i bambini». A Petuski, dice Erofeev, «è tutto diverso, ma sempre
lo stesso», il che è come dire che Petuski non è che una romantica
illusione tenuta in piedi dalla vodka in un posto, l'Unione Sovietica,
dove soltanto con l'aiuto della vodka la vita può essere sopportata. Per
questo il poema è molto più che un semplice inno all'estasi etilica, è
un canto d'amore al contempo gioioso e dolente verso tutti quei paradisi
effimeri e dolorosi che danno un senso agli inferni. È un poema
universale e se Erofeev lo ha definito poema non è tanto perché pensasse
a qualche poema in particolare alle Anime morte di Gogol' o alla
Commedia di Dante quando perché ambiva all'opera aperta, a un testo
prossimo all'oralità, alla universale indeterminatezza, alla continua
trasmutazione di tutto ciò che si propaga per mito, per sentito dire,
per samizdat. Qualcosa di ristretto, di intimo, che diventa sterminato,
universale.
«Scrissi quel libro per una cerchia di amici, per divertirli ma anche
per rattristarli un po'. Ottanta pagine di baldoria e dieci che
spazzassero via l'allegria» dirà Erofeev poco prima di morire. «Oggi la
gente ride. Dice, ma quant'è divertente quel libro. Non s'accorgono del
senso di tragedia. Non s'accorgono di nulla, quei bastardi».