“Dice che questa depressione fa bene alla salute. Dice che la gente
mangia troppo (…). Dice che gl’insegnerà i veri valori della vita. (…)
Me l’immagino, con un tirapiedi in livrea, (…) in giro in Rolls Royce
tutto il santo giorno. Eppure quel bastardo ti scrive tutte quelle
fregnacce perché la gente se le legga.”
Un barbone, mangiando una salsiccia ammuffita, parla di un giornalista
che si riempie la bocca, oltre che di prelibatezze, di belle parole.
Nella rabbia di queste frasi potremmo leggere la critica definitiva a
ogni teoria sugli effetti eticamente benefici della crisi che stiamo
vivendo, a ogni elogio di una decrescita felice. È una rabbia che ci
viene dritta dagli anni della Grande Depressione americana, dalle pagine
di un libro dimenticato troppo a lungo.
Pubblicato nel 1935, Waiting for nothing nella nuova edizione italiana
(traduzione e cura di Mario Maffi, Quodlibet 2014) torna al titolo
proposto originariamente dall’autore: Un pasto caldo e un buco per la
notte. Tom Kromer ripercorre dodici situazioni di vita di strada in cui
il comune denominatore è proprio la ricerca di qualcosa da mettere sotto
i denti e di un riparo, gli unici orizzonti reali per un vagabondo che
ha perso qualsiasi speranza.
Con uno sguardo crudo, in una lingua asciutta ma piena del ritmo che le
conferiscono i termini gergali del vagabondaggio, racconta le fughe
dalla polizia, l’incontro con un travestito che gli offre denaro in
cambio di sesso, la coda interminabile per una tazza di brodaglia, le
notti passate al caldo di una Missione – a patto però di pregare per
delle ore –, la morte di un barbone proprio nel letto di fianco al suo e
i tentativi di saltare sui treni merci in corsa. Il tutto senza nessun
romanticismo.
D’altra parte l’autore sa di cosa parla. Nato nel 1906 in una famiglia
operaia e primogenito di cinque fratelli, proprio nel 1929 Tom Kromer si
ritrova senza lavoro a girovagare per gli Stati Uniti in cerca di un
impiego che non c’è. In uno scritto uscito insieme alla prima edizione
di Waiting for nothing, ha svelato le condizioni precarie in cui è stato
composto (capitoli buttati giù su carta da sigarette, al margine di
opuscoli religiosi, in prigione…) e soprattutto ne ha assicurato il
carattere autobiografico. “Tranne quattro o cinque brani, il libro è del
tutto autobiografico.
Alcuni degli episodi riportati non sono accaduti nella sequenza che gli
ho dato, perché ho cercato di mescolarli in modo da sviluppare meglio la
storia. La parlata dei vagabondi è, ovviamente, autentica”. È curiosa
questa dichiarazione, come se l’autore avesse bisogno di aggiungere una
forza ulteriore di verità a un testo che già la esprime a pieno: nei
dialoghi feroci rubati alla strada, nella voce di un io narrante che ha
fame e freddo, nelle descrizioni della cattiveria subita dagli
emarginati come lui. Ma l’intento autobiografico si spinge oltre perché
il protagonista del libro si chiama Tom Kromer, come lui ha studiato e
poi è finito a mendicare, come lui non sopporta la finta carità delle
Missioni. Insomma, c’è un desiderio di far sentire al lettore che è
tutto vero, senza scampo.
A creare un senso di ulteriore empatia nel lettore interviene anche uno
humour nero, appena accennato, la sola arma per combattere la durezza
della vita senza lavoro. Brevi battute, una sottile ironia che spesso
cede il passo alla solita rabbia verso una società incapace di aiutare
le persone in difficoltà. In un capitolo del libro anche i lettori sono
chiamati in causa, di fronte a Karl, uno scrittore che descrive “le cose
in modo che le puoi vedere mentre leggi”. Muore di fame, Karl, perché
“scrive di bambini che muoiono di fame, di gente che si trascina per le
strade in cerca di lavoro. Ai lettori questa roba non piace”. Insomma,
Kromer sa cosa sta facendo e probabilmente sa anche che sta sovvertendo
un pezzo di mitologia americana.
Del resto il periodo è quello della crisi del ’29 e la situazione
sociale ha distrutto anche i valori. Il mito della strada che era stato
di Jack London è messo a dura prova e la figura dell’hobo, del vagabondo
per libera scelta, cambia connotati. Dalla fine dell’Ottocento, l’hobo
era stato ben presente nella letteratura e nei sogni americani. A questo
proposito, nella postfazione italiana, Mario Maffi cita un verso
straordinario di Whitman: “A piedi e con il cuore leggero m’avvio per la
libera strada…”. È proprio l’idea di libertà a essere distrutta nelle
pagine di Kromer, che ripete spesso come con lo stomaco vuoto e la
stanchezza non ci si possa godere niente. Il vagabondo di Kromer è
ridotto all’animalità suo malgrado e tira avanti grazie a un puro
istinto di autoconservazione.
Nessuna epica, nessuna concessione al pathos. Non stupisce, dunque, che
la generazione della fine degli anni ’60 abbia dimenticato Kromer,
preferendogli di gran lunga Kerouac e il suo Dean Moriarty, che della
strada racconta anche una dimensione gioiosa. Saltare sui treni è
l’avventura, non il gesto disperato di chi non ha altra scelta come in
queste pagine; dividere le scatole di fagioli e mangiare sbobba sono
momenti con un carico sentimentale, non l’assenza di alternative.
Letto oggi, invece, Un pasto caldo e un buco per la notte non può
lasciare indifferenti. La sua lingua semplicissima ma viva, l’aura cupa
del gergo da vagabondo, il dialoghi secchi, la sintassi ridotta al
minimo, tutti questi elementi conferiscono al libro lo sguardo raso
terra che lo rende unico.
E anche i pregiudizi, enunciati attraverso ritornelli che conosciamo
bene anche oggi, assumono una forza primigenia in bocca a questo
personaggio che sopravvive a stento: “Ti ridono in faccia, quando chiedi
lavoro. “Lavoro non ce n’è” ti dicono. “Non riusciamo nemmeno a tenere
quelli che già abbiamo”.