Giunto a ottantadue anni, Peter Eisenman ha ormai una lunga carriera
alle spalle: una carriera costituita da alcune opere realizzate (la più
convincente e significativa delle quali è probabilmente il Memoriale per
gli Ebrei assassinati d’Europa a Berlino, 1997-2005) e da una serie di
contributi teorici, disseminati tra gli anni Sessanta e oggi. La prima
parte di questi contributi è ora disponibile anche in italiano, mentre
la seconda (Written Into the Void: Selected Writings 1990-2004, Yale
University Press 2007) attende ancora di essere pubblicata in Italia.
La grande fertilità teorica è sempre stata tratto caratterizzante di
Eisenman, che nel tempo si è servito del pensiero di linguisti come Noam
Chomsky o di filosofi come Jacques Derrida. È attraverso il dialogo con
quest’ultimo, ad esempio, che Eisenman ha problematizzato la questione
del «writing architecture» su cui molta della sua produzione teorica è
imperniata (cfr. il dialogo fra i due in Jacques Derrida, Adesso
l’architettura, a cura di Francesco Vitale, Scheiwiller 2008): una
compresenza di significati diversi (di diverse interpretazioni) che
comprendono tanto lo «scrivere l’architettura» quanto l’idea di
un’«architettura scrivente». L’attitudine a mettere in questione il
senso stesso dei fondamenti dell’architettura, in realtà, precede di
molto il suo incontro con Derrida e risale addirittura ai suoi esordi,
allorché nel 1963, sotto la guida di Colin Rowe, aveva redatto la sua
tesi di dottorato, La base formale dell’architettura moderna (Pendragon
2008).
Alla nozione di «formale» come dimensione autoreferenziale
dell’architettura, svincolata dai cardini solitamente considerati
inamovibili della funzione, è dedicato il primo rilevante saggio di
Eisenman nella raccolta (Verso una comprensione della forma in
architettura, 1963). Esso segna anche l’inizio delle sue sperimentazioni
sulla cosiddetta cardboard architecture (architettura di cartone): una
serie di case «concettuali», «teoriche» anche se giunte a realizzazione
concreta. E proprio alla «definizione di un’architettura concettuale» è
consacrato un saggio del ’71 che dimostra tra l’altro la piena
«sincronicità» col panorama artistico nordamericano di quegli anni.
Tra le altre perle della raccolta vi sono i saggi, originariamente
apparsi sulla rivista «Oppositions», su Alison e Peter Smithson (Da
Golden Lane al Robin Hood Gardens, 1973) e James Stirling (Reale e
inglese, 1974), e quello sul post-funzionalismo (1976). Ma è soprattutto
La fine del classico, pubblicato su «Perspecta» nel 1984, a segnare una
svolta che avrà significative ripercussioni sui progetti architettonici
di Eisenman non meno che sul suo intero impianto di pensiero: laddove
postula la possibilità di un’architettura senza origine né fine, senza
oggetto, senza ragione, e pertanto perfettamente arbitraria.
Al corpus degli scritti eisenmaniani che hanno visto la luce fino al
1988 va aggiunto un ulteriore saggio, concepito come Introduzione
dell’edizione americana del 2004 e riproposto anche in quella italiana.
Qui Eisenman prova a ricapitolare la propria posizione, pur mutevole nel
tempo, attraverso la nozione di «interiorità dell’architettura»: «Le
mie idee in merito a questa “interiorità” hanno assunto nel corso degli
anni molti nomi diversi quali struttura profonda, immanenza, base
formale». Ciò che le accomuna è la riflessione su quanto costituisce il
ground dell’architettura, la «condizione discorsiva interna» su cui si
«regge» dal punto di vista del senso, non in termini concreti o
funzionali.
Tale «interiorità», secondo Eisenman, ha corrisposto nel tempo con la
storicità dell’architettura, ovvero con la ripresa dei suoi ordini
classici intesi non soltanto come ciò che conferiva all’edificio
solidità, utilità e bellezza, secondo il dettato vitruviano, ma anche
una rappresentazione di queste. E se nel Seicento il dibattito tra
Jacques-François Blondel e Claude Perrault aveva segnato l’affermazione
di quest’ultimo, che vedeva non più nella storicità ma nel presente la
condizione normativa dell’architettura, la ricerca di Eisenman si spinge
a sondare la possibilità di altre «interiorità» represse.
Intendendo l’architettura come un sistema di segni (non per forza
connesso a un corrispondente sistema di significati), Eisenman relaziona
la sua «interiorità» a un paradigma linguistico. Un paradigma che, nel
contesto dell’architettura, permette di mostrarne la piena autonomia
rispetto ai «discorsi» ai quali essa è classicamente e normativamente
riferita. Un’architettura intesa come scrittura di se stessa: non più
come narrazione, nel senso tradizionale del termine, bensì – secondo
quanto afferma Derrida conversando con Eisenman – come «spaziatura»:
dove «non si abbandona il testo discorsivo, ma si ha nuova esperienza di
questo stesso testo, della sua struttura, della sua apertura, della sua
non-chiusura, della disgiunzione, soprattutto della maniera in cui vi
si inscrive un discorso».
È qui che architettura e scrittura si incontrano e formano, come
nell’opera di Eisenman, una cosa sola. È ancora Derrida ad affermare che
«si può trovare l’architettura al di fuori dell’architettura e si può
trovare dell’architettura all’interno, il che significa che talvolta può
esserci più architettura in un libro che in un edificio firmato da un
architetto o da un non-architetto, o più letteratura nelle mani di un
architetto che nelle mani di uno scrittore».