Guardare non è la messa a fuoco fotografica di un oggetto immobile nei
nostri occhi. Lo sguardo, naviga entro i confini di ciò che ha di
fronte, tracciando rette incomprensibili, che continuamente si spostano
all’interno della figura per comprenderla.
Con lo stesso furore, non è l’immagine ad avere il sopravvento nei
disegni e nelle parole di Daniel Libeskind, ma è piuttosto il viaggiare
avido dei suoi occhi – durante il quale s’illumina l’infinito numero
delle sue cognizioni – a prendere forma e peso di linee e di segni.
Nell’introduzione all’intensa raccolta di scritti, disegni, e macchine,
Lev Libeskind racconta che il Museo Ebraico di Berlino, primo progetto
architettonico del padre, ebbe come titolo La linea del fuoco, ovvero
“quel salto in avanti attraverso le fiamme” per farsi casa, che dalla
preistoria attraverserà l’esistenza degli uomini.
Così, il museo, che attraversa fiamme e linee e azzittisce il vociare
tra architettura e storia a mostrare il disastro trasfigurato in spazio,
è certamente progetto-chiave nell’opera di Libeskind e il testo che lo
descrive aiuta il lettore a comprenderne genesi, ispirazioni e percorsi
progettuali. Alle parole di Libeskind fa eco la nota di Dario Gentili,
che cura l’edizione del libro, e che sottolinea la centralità della
nozione di vuoto nella sperimentazione dell’architetto polacco. Su
questa nozione, infatti, Libeskind ebbe occasione di confrontarsi con
Jacques Derrida, proprio a proposito del Museo Ebraico di Berlino.
Il discontinous void, che è sostanza spaziale dell’edificio, non è
colmabile, anzi “quello che un architetto deve fare in questo caso è
impedire che il vuoto venga riempito”. Ma se il vuoto di Libeskind è
riferibile, per sua stessa ammissione, alla concezione ebraica dello
spazio e non a quella greca, altrettanto si può dire della temporalità
che viene esercitata all’interno della sua architettura, ovvero non una
concezione ciclica del tempo, d’ispirazione ellenista, esperita
attraverso una successione di spazi statici, ma un evento spaziale che
si muove nell’orizzonte di una concezione lineare del tempo e della
storia.
È il vuoto di Libeskind, confinato in un’eterna attesa a muoversi lungo una linea spezzata.
E non è certo un caso, come sottolinea Derrida, che l’identità di
Berlino corra lungo la stessa linea, la linea del muro, che cadde nel
fuoco della liberazione proprio durante il processo di elaborazione e
costruzione del Museo, e che la città simboleggi tutte le città divise
del mondo, anche Gerusalemme.
La linea del fuoco, dunque, esplora, racconta, decodifica attraverso
parole e segni dell’autore, l’autore stesso, con l’appagante risultato
di renderne più complessa l’immagine conclusiva e svelando l’universo
operativo e teorico di Libeskind, percorribile in molteplici direzioni e
dove anche “i margini sono altrettanto importanti quanto ciò che vi è
commentato, proprio come nel Talmud”. Questi margini hanno lo spessore
infuocato delle linee disegnate da Libeskind, lungo il cui correre
l’architetto polacco incontra Aldo Rossi, in un inedito ed entusiasmante
dialogo a distanza che prende vita nel libro.
Deus ex-machina, machina ex deo è la riflessione di Libeskind sul Teatro
del Mondo, “emblematico dell’intera visione di Aldo Rossi, perché sia
nella funzione sia nel suo essere analogico, è insieme affermazione
della noia della riproduzione e rifiuto delle passioni implicite in una
dialettica auto determinata”, ma soprattutto egli vede nel Teatro il
“vuoto dei luoghi”, vede l’assenza, nella rappresentazione di quello
spazio, di un’analogia con la verità storica di cui il Teatro
mimeticamente si veste, ma che in fondo nega.
I risultati formali sono diversi, certo, ma sia Libeskind sia Rossi
sembrano difendere lo stesso vuoto, assumendo più o meno consapevolmente
la “lacerazione all’interno di un certo ordine” come prassi
progettuale.
Dal canto suo, Aldo Rossi, in uno scritto del 1983, intitolato
Semplicemente un percorso compie quel che lui stesso chiama una lettura
parallela dell’opera di Libeskind, al fine di riconoscere in essa la sua
stessa volontà di rappresentare “ciò che è irripetibile”. È proprio
alla ricchezza di pensiero, “di elementi mentali, matematici,
speculativi [che] si combinano in una sorta di disastro formale” che si
deve l’interesse di Rossi per Libeskind, sostenuto da una sorta di
auto-analisi attraverso gli scritti e i disegni, molti dei quali sono
oggi contenuti nel libro.
Entrambi parlano dell’altro parlando di se stessi, cercando addirittura
nell'altro parte di sé, proprio perché – come sostiene Aldo Rossi, a
proposito degli strumenti analitici e progettuali – “chi cerca la
chiarezza deve necessariamente sovrapporre e la sovrapposizione quasi
offusca la realtà”.
Allo stesso modo, alla ricerca della chiarezza dell’architettura, i due
architetti hanno sovrapposto per un istante i propri percorsi lasciando
soltanto una traccia sbiadita della verità e una serie infinita di segni
a guardia di quel vuoto che Libeskind insegue da quando la prima linea
del fuoco è stata varcata.