Recensioni / Oltre il bipolarismo tribale

Con quale criterio, oggi, un autore italiano viene relegato tra i minori, o innalzato tra i massimi? Quali sono i presupposti su cui è possibile rifondare i mengaldiani giudizi di valore? E infine: che rapporto corre tra la cultura diffusa e la cosiddetta "alta cultura"? Di questo tenore, cartesianamente chiare e distinte, sono le domande che si pone Matteo Marchesini nel poderoso volume Da Pascoli a Busi, raccolta di articoli composti per varie testate tra il 2006 e il 2014. Ne esce un ritratto inconsueto del Novecento letterario e dell'Italia novecentesca, eternamente alla ricerca dí accordi consociativi che compensino il bipolarismo tribale di fondo.
La medesima dinamica viene riscontrata nel mondo letterario, dove fare critica spesso coincide con l'alternanza tra pollice recto e pollice verso, senza nessuna preoccupazione per quello che Marchesini indica come il principale compito della critica stessa: schivare lo specialismo, denudare gli idoli, riannodare le fila con la realtà, essendone specchio e giudizio a un tempo.
In questo modo Da Pascoli a Busi apre il dibattito, più ancora che sul canone novecentesco, sulle modalità con cui questo canone si è affermato, alternando mitizzazioni e rimozioni, spesso statuto della poesia coincide con il coraggio di guardare in faccia lo stato delle cose, di ingaggiare con esso una inesausta battaglia.
In questo personalissimo canone troviamo così scrittori "ibridi ma sobri, saturnini ma civili" che rifiutano sia gli alibi collettivi che i narcisismi mistificatori, mettendo in campo la loro soggettività senza assolutizzarla.  Vediamo tre esempi.

Cesare Garboli, con la sua refrattarietà agli stili estetizzanti e all'idea che l'arte rappresenti un valore in sé, è più un diagnostico che un critico, interessato allo "spazio che divide e lega vischiosamente poesia e vita". Rigoroso e immaginativo a un tempo, raggiunge il vertiginoso risultato di essere lo scrittore centrale della fin de siècle, e di esserlo in quanto autore di un'opera di servizio, immune dalla pseudocreatività all'insegna dell'idea che la novità sia un valore di per sé. Del tutto immune dal terrore della mediocrità che spesso induce gli intellettuali a rifiutare aristocraticamente ciò che è comune, quotidiano, dotato di buon senso, Marchesini non teme di tirarsi fuori dalla via maior del "Canone della Paura": così Gadda, Montale, Calvino compaiono
nel suo libro non come protagonisti monumentalizzati del secolo scorso, bensì come pietre d'inciampo su cui si è infranta la "banalità culturalistica, ideologica" di certa critica, più interessata a
compiacersi dell'indecifrabilità che a perseguire la leopardiana "celeste naturalezza" di uno stile capace di inglobare tutto ciò che è umano. In questo profilo non esistono Luzi, Giudici, Zanzotto
(citato en passant una sola volta) né Fenoglio, Gadda o Svevo, men che meno Sanguineti e le neoavanguardie: il Novecento italiano viene privato della sua scenografia consueta, decostruito nei
suoi miti, e riedificato a partire da una periferia letteraria (quella di Giacomo Noventa, di Roberto Roversi, di Nicola Chiaromonte o di Piergiorgio Bellocchio) dove l'incertezza rispetto allo che oggi dilaga come muffa.
Ancora sul fronte critico saggistico Pergiorgio Bellocchio, ultimo detentore di quel pathos satirico tipico di chi rifiuta di scendere nella mischia e sceglie così di mettersi "dalla parte del torto", è insieme al dimenticato Nicola Chiaromonte il modello sui generis da cui trarre l'esempio di un lucido sguardo sulla realtà, senza alibi e senza speranze di risarcimento. Per entrambi, come per Alfonso Berardinelli, il romanzo non è più il centro della letteratura, perché non è più il luogo in cui ci si interroghi sui rapporti tra arte e società, in cui si tenti una lettura del mondo. Nel saggismo à la Bellocchio sarà invece ancora possibile cogliere "il diavolo nel dettaglio, per leggerlo poi subito come sintomo di un ampio processo storico-sociale": in un avviso condominiale come in un dialogo captato sulla spiaggia, Bellocchio fissa lo spirito del tempo, più efficacemente che in qualsiasi romanzo, rimanendo sospeso tra malinconia e rivolta. E infine Franco Fortini e Giacomo Noventa, esempi di una volontà demistificatoria e antidemagogica, diretta verso la critica della società culturale che già negli anni cinquanta credeva di "correre con la maglia del marxismo e dello spiritualismo" senza accorgersi di "aver già stampato, sulla schiena, il nome di una ditta di tubolari della cultura o di dentifrici letterari".

Il rifiuto delle ideologie coincide, per questi autori come per Marchesini, con il rifiuto di una critica apologetica o corporativa, e con una scelta a favore di una "ecologia dell'immaginario", uno sforzo a leggere gli autori proposti mai per se stessi, in direzione assolutizzante, ma sempre in rapporto al loro significato per noi, oggi: secondo l'insegnamento di Fortini e Noventa, Marchesini ci invita a "estrarre dalle parole dei maestri verità ed errori da misurare sul metro del presente" perché le verità dei maestri non proteggono i nostri abbagli.