Recensioni / La seduzione populista

La questione del “populismo” è come noto di grande attualità. Da circa un ventennio, l’affermazione di movimenti politici nuovi non fondati su forme tradizionali di selezione delle preferenze collettive, di costruzione del consenso e di esercizio del potere è stata spesso interpretata attraverso la lente di questa categoria la cui efficacia descrittiva si associa tuttavia ad una valenza esplicativa tutt’altro che evidente . Un recente volume di Federico Ferrari – “La seduzione populista. Dalla città per tutti alla città normalizzata”, Quodlibet Studio, 2013 – affronta la questione del populismo nella prospettiva dell’architettura e delle forme urbane.   Il libro di Ferrari pone questioni che sono allo stesso tempo classiche e urgenti: prima di tutto l’uso politico dell’ambiente urbano e delle immagini che esso veicola o intende veicolare ed il difficile equilibrio fra i saperi e le culture specialistiche della progettazione da una parte e agency, reale o simulata, delle masse di utenti finali. E pone queste questioni miscelando con attenzione veri e propri affondi nella storia della cultura e del dibattito culturale con approfondimenti di caso che conferiscono al ragionamento il necessario spessore empirico. A emergere fra le pagine del volume di Ferrari è la vena del polemista informato con la passione per le battaglie culturali con l’ambizione, largamente soddisfatta, di parlare a pubblici anche molto diversi fra loro.    

Il volume si apre con la presentazione e discussione di tre “scenari”, ovvero di tre casi studio che intendono proporre una prima esemplificazione concreta delle questioni che sono successivamente affrontate nelle parti più teoriche del volume.

Il primo caso è quello della ville nouvelle di Bussy Saint George in Francia, il più “politico” fra quelli proposti, dove un eclettismo ingenuo diventa inevitabilmente il linguaggio di una politica di secessione soft dal progetto di territorio dalla pianificazione di stato affermatosi  nel corso dei “trenta gloriosi”. Se il protagonista di questa secessione è una nuova generazione di imprenditori politici locali nata sull’onda del decentramento e della crescente segmentazione sociale e razziale dello spazio metropolitano, il referente sociale essenziale è invece una classe media sempre più decisa a lasciarsi alle spalle i compromessi sociali dell’età industriale a favore di una più decisa asserzione delle proprie preferenze in termini di organizzazione e forma di uno spazio urbano che intende fare sempre più “proprio”.

A seguire incontriamo il caso statunitense di Celebration -  esempio plastico di conflagarazione dei tanti motivi dell’urbanesimo americano che fanno per definizione orrore a noi europei: la secessione sostanziale e pure formale di una parte dal tutto urbano, il privato collettivo come alternativo al privato pubblico, la ricerca dell’omogeneità sociale e razziale condotta agli estremi, l’architettura e l’urban design come ingenua finzione cinematografica – rappresenta invece, nella prospettiva dell’autore, un caso perfetto di “populismo di mercato”. Scaturita dall’intuizione disneyana dell’importabilità del modello del parco a tema anche nel campo dell’abitare, Celebration si propone come un modello di “urbanesimo a catalogo” entro il quale  i candidati proprietari sono chiamati a selezionare fra sei diversi tipi architettonici, ciascuno  dei quali riferito ad un qualche passato più o meno mitizzato. A Celebration  si compie così l’ideale di uno spazio urbano compiutamente purificato e igienizzato  governato secondo i principi di una nevrosi del controllo che sottopone tutto - dal colore delle tende al dove si parcheggia l’automobile – ad una fitta maglia normativa che è tipica di molti common interest development americani.

Infine, il caso di Pondbury in Inghilterra che per molti versi si configura come un più onesto caso di progetto d’ispirazione culturalista, con Léon Krier impegnato a realizzare i principi del suo manifesto anti-modernista – dimensioni ridotte, rapporti di vicinato, alta densità, riaffermazione della piazza e della strada come morfemi fondamentali della morfologia urbana – che conducono alla riproduzione integrale di un “tipico” villaggio inglese. In questo caso l’elemento identitario di matrice quasi etnica è quello prevalente, che – va da sé – necessita ai fini della sua credibilità nei confronti degli abitanti dell’impiego delle stesse modalità di governo nevrotico delle pratiche dell’abitare che l’autore ha già messo in luce anche nel caso di Celebration.

Alla discussione dei tre casi studio segue poi la restituzione critica di due storie che appartengono al campo di quello che potremmo definire in senso lato la politica culturale dell’architettura e dell’urbanistica, storie che l’autore utilizza come ulteriore materiale di verifica – questa volta teorica – della sua tesi: la campagna antimodernista portata avanti con aggressività da Carlo di Inghilterra a partire dagli anni ottanta e il filone di studi e dibattiti generato dalla pubblicazione del celebre “Learning from Las Vegas” di Venturi e Scott Brown.

La prima vicenda rappresenta l’esempio fondativo di una campagna su larga scala volta a usare l’architettura e il planning per raggiungere altri obiettivi di natura esclusivamente politica. In questo caso l’attivazione del “dispositivo populista” non è affatto velata: Carlo di Inghilterra parte all’attacco del “modernist establishment” forte del suo carisma di membro della casa regnante in nome del ritorno ad “un’architettura umana” ovvero di una banalizzata rievocazione di un passato vernacolare (“Meglio una casa di pietra e ardesia dell’Inghilterra settentrionale di una torre del public housing degli anni sessanta”, afferma Carlo). A imporsi è un’immediata e potente connessione sentimentale fra il principe – quale rappresentante essenziale della englishness – e la sterminata platea dei propri sudditi, ovvero la “gente comune”. Un film diffuso dalla BBC – “A personal view of architecture” – e l’intervento del Principe nella vicenda del concorso di Paternoster Square a Londra rappresentano altrettante potenti esemplificazioni del modo di operare del dispositivo populista che nel secondo caso si sostanzia dell’eliminazione di fatto di qualsiasi forma di intermediazione e discussione collettiva nella formazione di un determinato progetto urbano.

Successivamente Ferrari discute lo strutturarsi di una campo anti-modernista nel contesto statunitense a partire dal celeberrimo volume di Venturi e Scott Brown. Con “Learning from Las Vegas” – o più precisamente con le sue letture più strumentali e ideologiche - ad affermarsi è un nuovo corso che pone con forza l’ordinario come fonte di legittimazione dell’architettura. Se nelle arti é il pop a fare da veicolo della svolta, nel campo dell’organizzazione sociale e spaziale è l’affermarsi degli ideali di domesticità associati all’ascesa alla civiltà suburbana negli Usa a offrirsi come veicolo della retorica anti-modernista. Fra introflessione dell’abitare e incipienti desideri di distinzione, il suburbio di Levittown diviene in questa prospettiva la scena del passaggio “dall’uomo nuovo del modulor all’uomo medio” come referente essenziale della ricerca architettonica strettamente associata a un mercato fondato sull’inganno di una distinzione standardizzata.

Nelle conclusioni, l’autore procede a riordinare il molto materiale raccolto formulandone un’interpretazione di natura spiccatamente interdisciplinare.  Qui Ferrari propone una lettura foucultiana del populismo come strumento di governo più che come vero e proprio “progetto politico” tradizionale dotato di un “programma”. In questo senso, il populismo rappresenterebbe una risposta alla crisi di autorità determinata dall’accelerazione del principio dell’individualizzazione che pure alla modernità era strettamente associato. La “dismisura” rappresentata dall’individualità democratica che si fa ideologia individualista a partire dagli anni sessanta, la pluralizzazione profonda della società e la crisi della prospettiva stesso di un progresso lineare vengono a coincidere con il netto prevalere del mercato – e del marketing, specifica l’autore – come paradigma politico ed organizzativo del tardo-capitalismo. Grazie al dispositivo populista, questo “eccesso” di individualizzazione non si risolve in un’esplosione anarchica e generalizzata di sovranità estetica, viceversa viene ammaestrata da una modalità di governo il cui materiale retorico é un insieme eclettico di immagini di separazione, passatismo e malinteso culturalismo. Nel formulare e argomentare questa ipotesi tuttavia Ferrari colloca saldamente il post-moderno – ed anche la stessa linea populista, come abbiamo detto - nel loro campo di riferimento, ovvero quello di un’accelerazione della modernità e non di una sua negazione, quello di una sua crescente turbolenza dovuta al suo stesso successo e non di una sua involuzione: si tratta di un doppio movimento teorico che dà particolare “densità” alle sue tesi. In chiusura, contro la seduzione populista l’autore rivendica la possibilità di negoziare ancora una qualche “verità pubblica” dell’architettura e dell’urbanistica che sia associata a un progetto collettivo la cui leadership – su questo Ferrari insiste in modo non equivoco – spetta necessariamente a specialisti e professionisti. Una verità che - sebbene negoziata nel quadro delle istituzioni di una democrazia liberale – possa rappresentare un’alternativa piena al predominio dei meccanismi di mercato nei quali l’autore vede l’essenza del dispositivo populista che intende confutare. A imporsi sullo sfondo è infatti un’alternativa fra una discussione collettiva guidata dagli specialisti e la scelta su un catalogo accompagnata invece da un pur sofisticato agente immobiliare. Da questo punto di vista, uno dei più grandi meriti del volume è la messa in luce delle modalità con le quali meccanismi di mercato – e più complessivamente cultura del  mercato – e progetti politici convergono nell’operatività del “dispositivo populista”. Populista perché muove dalla suggestione di una connessione sentimentale e immediata fra il popolo e un suo supposto interprete talvolta carismatico il cui materiale retorico essenziale sarebbero leimmagine banalizzate del passato architettonico, perché fondata sull’abile ma disonesta simulazione di un’agency degli abitanti – “tu potrai finalmente scegliere dove vivere” – ed infine perché fondata sull’individuazione di un avversario – l’establishment modernista, la tecnocrazia di stato, gli intellettuali - che ha la tonalità emotiva di una vendetta se non di un vero e proprio revanscismo.

Il volume suggerisce altri percorsi di riflessione che senza dubbio sarebbe utile e produttivo sviluppare ulteriormente in futuro, in particolare in riferimento all’effettivo statuto sociale e politico del modernismo ed all’esistenza di una critica anti-modernista autenticamente radicale e democratica. Sulla prima questione è opportuno sottolineare come il modernismo entri in crisi anche per la rottura della “finzione” che ideologicamente lo giustificava, vale a dire il suo universalismo. Limitandoci al contesto nordamericano, il modernismo è stato spesso messo al servizio di progetti politici tutt’altro che universalisti – l’urban renewal come “negro removal” ed il public housing come soluzione ghettizante delle sue vittime – che certo ne hanno indebolito la forza di attrazione non solo nell’opinione radicale ed intellettuale ma anche in più vasti strati sociali. Viceversa, in una prospettiva opposta, ci pare anche di poter affermare che il modernismo e la cultura urbanistica progressista, quali progetti fondamentalmente redistributivi, scontino la loro congenita difficoltà nell’intercettare quelle esuberanze individualiste che, non necessariamente “conservatrici”,  si risolvono in una costante ricerca di peculiari “quadri di vita” nei quali coltivare la costruzione di sé, la differenza ed i legami sociali che possono favorirle. Il tema del privato collettivo – di una dimensione socio-spaziale meso – che caratterizzata tante pratiche urbane e dell’abitare contemporaneo pone non casualmente e con forza il tema dell’agency degli abitanti e del suo rapporto con gli specialismi in termini che sono fondamentalmente alternativi agli inganni del dispositivo populista descritti nel volume di Ferrari.  In questa prospettiva, elementi del pensiero anarchico – si pensi al contributo di John Turner o Colin Ward - dimostrano nel contesto odierno tutta la loro vitalità ed apertura al futuro. Anche la tradizione etnografica, a partire da Herbert Gans e Jane Jacobs, non casualmente citati dall’autore, è stata da questo punto di vista un’eccezionale riserva di pensiero critico nei confronti del modernismo e all’uso politico che ne è stato fatto. Il fatto che alcuni dei loro argomenti, opportunamente depurati delle scomode quanto fondamentali componenti di forte critica sociale, sono stati poi impiegati dai populisti post-moderni à la Carlo d’Inghilterra per condurre le proprie battaglie contro l’ “establishment modernista” è la seppur paradossale dimostrazione della loro efficacia . La ricostruzione di quella che potremmo definire come una linea democratica e radicale di contestazione del modernismo e dei progetti politici di territorio dei quali questo è stato il linguaggio rimane ancora tutta da scrivere. Con il suo volume Federico Ferrari ha risposto a delle domande facendone scaturire delle ulteriori, forse una delle qualità più preziose in un lavoro di ricerca.