Recensioni / Critico di (nuova) tradizione

Verso la fine degli anni '90, un lettore del «Diario della settimana», ove tenevo una rubrica di narrativa italiana, mi scrisse per dirmi che si riconosceva nel mio lavoro di recensore. La corrispondenza andò avanti, come non mi capita quasi mai, per via d'una vita concitata: in effetti, quel lettore, che dimostrava sui fatti culturali una competenza non da poco, era diventato un interlocutore troppo interessante, imprescindibile. Scoprii poi che non aveva nemmeno venti anni. Lo presentai a Giorgio Manacorda, che dirigeva con furiosa passione un Annuario di poesia: qui, Matteo Marchesini (è di lui che sto parlando), incontrò quella piccola comunità letteraria, fuori d'ogni cordata, di cui aveva profondo bisogno, legandosi intellettualmente a fratelli maggiori come Paolo Febbraro e a maestri, non importa quanto volontari, come Alfonso Berardinelli. Da allora, ha pubblicato versi e saggi sulla poesia italiana contemporanea per esempio il volume Poesie senza gergo (2012) -, ma anche racconti come quelli di Le donne spariscono in silenzio (2005) e il romanzo Atti mancati (2013). Oggi è uno dei più giovani collaboratori di questo giornale ed è uno dei critici di punta del «Foglio».
Tutto questo occorreva ricordarlo per l'uscita del foltissimo Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura: per dire di un'autorevolezza che è stata precoce e come naturale.
Un libro che, muovendo da Pascoli, D'Annunzio e De Roberto, arriva sino a Cordelli, Patrizia Cavalli e Busi, ma anche al giovane Paolo Maccari: passando, e cito qua e là, per Saba (interrogandosi sul perché non sia popolare in Italia), Rebora e Cicognani (con La Velia suggestivamente spalancata sulla contemporaneità di Walter Siti), Savinio e Noventa, Brancati e Landolfi, Caproni e Sereni, Bianciardi e Sciascia, i due Levi, Moravia e Cassola, un delizioso Delfini dietro Celati, e moltissimo altro. Un libro importante, direi, e non solo per la sua storia personale, ma anche per quella dei suoi coetanei. E che ci mette davanti a un fatto irrefutabile: nella critica, a differenza della narrativa, dove si sono avuti anche esiti di analfabetismo di ritorno, non c'è mai stata soluzione di continuità. Ecco, per citare alcuni nomi, i primi che mi vengono in mente, diversissimi e magari anche in conflitto tra loro: Gabriele Pedullà e Salvatore Ferlita; Andrea Di Consoli e Fabrizio Ottaviani; Francesca Serra e Gilda Policastro; Raffaello Palumbo Mosca, Domenico Calcaterra e Giuseppe Giglio; Andrea Caterini e Paolo Di Paolo (ma ne dimentico molti). A fronte della totale inconsapevolezza culturale dei propri coetanei narratori, ognuno di questi critici tramanda e incrocia tradizioni, assicura una discendenza ai padri e alle madri del passato, corregge il canone o prova addirittura a rifonderlo. E allora: da chi discende Marchesini? È lui stesso che non ama il "malato e felice" Garboli, seppure ne avverta il fascino ipnotico: e non lo ama anche perché ne detesta gli epigoni e gli imitatori, oggi numerosi a fare i nomi di Baldacci e Berardinelli: i quali, almeno sino a quando Baldacci è vissuto, si sono quasi ignorati, per trovare invece ora una sintesi felice e sorprendente nel lavoro di Marchesini. Anomali e fuori dal mucchio, Baldacci e Berardinelli son di quelli che non lasciano mai le cose come le trovano: capaci come forse nessun altro, oggi in Italia, di mettere il dettaglio (metrico, stilistico, lessicale, ideologico) a sistema, di pendolare con disinvoltura dal testo al contesto, di decostruire gli idola tribus, di presuppore la critica della cultura in quella letteraria, di usare tutti i metodi per non feticizzarne nessuno. Il punto d'arrivo di questa dísposizione mentale, sta in una decisa condanna del culturalismo dominante, e della sua costitutiva astrattezza, così formulata da Marchesini: «Questi intellettuali confermano che una certa insensibilità per il dato materiale della letteratura è spesso legata a un'insensibilità in senso lato politica, cioè all'incapacità di collocare sé stessi e il proprio linguaggio in un più vasto contesto di senso». Laddove la "retorica da editorialisti", che tratta l'«Alta Cultura come un feticcio o uno status symbol», non può non produrre costanti esiti di kitsch: quello che «per scaldare le folle da palasport contrappone alle notti del bunga bunga le notti passate a leggere Kant».
Per capire che critico sia Marchesini, e quanto sia assillato da una pertinace volontà d'arrivare alla radice dei problemi, basta muovere dalle sue domande, come quella con cui inizia il saggio sul Dizionario della critica militante (2008) di La Porta e Leonelli, inchiodando subito i due alle loro responsabilità: «il Dizionario della critica militante sarà a sua volta militante?». Il giovane Marchesini è simpatetico con gli autori, soprattutto per quella scelta di prediligere «gli individui, i criticisaggisti abituati a far interagire esplicitamente col discorso valutativo le proprie esperienze personali e le proprie ossessioni», ma, con coraggio, non manca di denunciarne il rischio di livellamento, come nel caso di Leonelli che, scommettendo su Garboli (grande perché «inutilizzabile»), mai problematizzando però il suo serrismo, «non lo distacca in modo adeguato da Citati». E poi: se Leonelli è «più misurato ma più incolore», La Porta (col quale è più in sintonia) resta «più approssimativo, ma più generoso». Prosa che mostra anche la velocità quasi epigrammatica con cui arriva al ritratto non solo letterario. Si potrà magari non concordare spesso con quanto Marchesini sostiene. Epperò questo libro dimostra che la critica è viva: e che il testimone continua a passare di mano in mano. Mi pare una bella notizia.