Recensioni / Su Ermanno Cavazzoni, La valle dei ladri

Ultimamente abbiamo assistito a una polemica sul significato di "moderno" in letteratura (e più in genere nelle arti) riconoscendo impropriamente a questa parola l'indicazione di uno "stile". Invero "moderno" prima che riferirsi a uno "stile" individua il mood di un tempo storico, il carattere di una età. Alla stessa maniera di "antico" o di "classico" indica la nascita (all'interno del correre dei secoli) di una nuova civiltà di pensiero e (conseguentemente) di fare arte.
Il "moderno" che è ancora il tempo in cui viviamo con Baudelaire, Hegel e Nietzsche (perdonatemi questa sintesi semplicistica ma è già comunemente usata) inaugurò un tempo (che ripeto è ancora il nostro) in cui l'operatore d'arte (poeta o romanziere, pittore o musicista) non poteva più contare (e usare direttamente) i materiali della realtà empirica e le logiche in cui si sviluppano perché incorsi in un processo di mistificazione e manipolazione falsificatoria. E questo vale anche per l'oggi nonostante il parere contrario di Donnarumma e mi pare di Barardinelli i quali, scambiandolo per uno stile, sembrano essere convinti che il moderno è da tempo finito (e gli unici che non se ne sarebbero accorti sono gli autori della neovanguardia).
Ma non è di questo che voglio discutere ma sottolineare che la prescrizione ideologica pronunciata a metà Ottocento (l'arte non è lo specchio della realtà) è valevole anche per l'oggi e insistere che non è accaduto nulla (anzi solo segnali di conferma) che consenta di considerarla superata.
Lo sa bene Ermanno Cavazzoni che ci propone La valle dei ladri già uscito nel 1999 e oggi ripresentato con nuovo titolo e dovuti arricchimenti. Cavazzoni è un uomo molto colto (senza le rigidità dell'accademico) e non gli manca né lo sguardo alto di chi pensa (e riflette) sul mondo (e sulla letteratura) né quello basso di chi vive in un Paese che sfida se stesso a chi meglio (e con più profitto) si esercita in atti di corruzione e di cattivi comportamenti.
Ma Cavazzoni è anche uno scrittore che ha molto amato i romanzi di Lawrence Sterne, così bizzarri e così socievoli (li amava anche Marx), e vuole esprimere il suo sdegno di uomo civile per il male di cui è spettatore ma per farlo decide di raccoglierlo (di rifletterlo) in una favola che, come è caratteristica delle favole, sa rendere credibili (inscenando un teatro dell'evidenza) le cose incredibili di cui racconta. Così fantastica di un altomonte da cui guardare le nefandezze che avvengono appena sotto, appunto nel bassomondo, dove vivono solo ladri, grassatori, profittatori, fornicatori insomma ogni sorta di malfattori e di furfanti.
Certo il bassofondo è privo di tutto, case e strade diroccate, appena un filo di elettricità che tiene quasi spenti i televisori (con le parole che non si sentono), non arrivano i treni o (forse dal sopramonte) uno quasi vuoto anzi con un solo viaggiatore (che poi diventerà il protagonista della favola) che appena scende con la valigia viene assaltato dagli abitanti in attesa, che vantandosi fidanzate, zii e parenti lo sequestrano (in realtà sequestrano la valigia). Manca il lavoro ma non (non si sa come) il "mangiare" (che pure è sempre quello degli altri) inducendo a una vita teppistica di vagoni smontati, viti svitate, lamiere divelte, poltrone strappate. Qualche simulacro di uffici pubblici con impiegati inesistenti e file che durano giorni (per poi scoprire l'inutilità dell'attesa). I dirigenti della Società di elettricità (eleganti e severi ingegneri) vanno in visita, passando di casa in casa, a spiegare perché manca la luce (in realtà a scroccare qualcosa da mangiare) portando e distribuendo biglietti della lotteria che assicurano a tutti i possessori la certezza del premio di un viaggio all'estero. Molti o forse qualcuno vuole andar via e tra questi il protagonista sfinito dalla complicità con la vita teppistica e roso dalla gelosia per l'insidia di un rivale nelle sue fantasticherie amorose. Ma sa che non ci sono treni in partenza né autobus, almeno non ne aveva fin lì mai visti, finché un certo pomeriggio molto nebbioso (non solo per la nebbia) inseguendo il rivale per sorprenderlo sul fatto gli pare di vederlo imbucarsi in un fantomatico autobus al quale anche lui si aggrappa e poco dopo il "fantasma" misteriosamente parte. Viaggia per giorni e giorni attraverso luoghi, strade, pianure e paesaggi invisibili e finalmente arriva nella città reale, non per niente MILANO.
Davvero straordinario è il racconto stralunato di Bassofondo dove ciò che accade infrange il modello realistico e la realtà viene estraniata con una formidabile energia ironico-visionaria. Non c'è angolo (dunque pagina) che non garantisce grande godimento trascinando il lettore in performances inaudite tanto spettacolari quanto incongrue. Nel divertimento tuttavia non gli sfugge che quel simulacro di città dove sono tutti ladri sono anche tutti poveri disgraziati senza che questo giustifica i loro comportamenti e piuttosto serve all'autore non per pronunciare atti di denuncia (e di esibita esecrazione) ma per intensificare e dar forza alla qualità allucinatoria della rappresentazione. Così Cavazzoni considerato scrittore privo di ogni rapporto con la realtà, impegnato in virtuosismi e giochi di parole, si rivela (a prova di contestazione) un autore che sa che la realtà per chi scrive è un riferimento essenziale e obbligato (altrimenti in cosa consisterebbe la scrittura) ma sa anche che (se non si vuole mancarne la presa) occorre dotarsi di tutta la strumentazione formale e gli espedienti tecnici necessari per non farsela sfuggire.
Quelli di Ermanno Cavazzoni sono di Ermanno Cavazzoni, infiniti altri pur profondamente diversi sono a disposizione (a decisione di ogni diverso scrittore) ma tutti non devono confondere la scrittura con la realtà (questa a specchio di quella) che tuttavia dovendo rispondere all'obbligo dell'oggettività non può permettersi di non far posto, approntando i modi adeguati (che non sono la bella scrittura come è d'uso secondo Giglioli nei giovani scrittori di oggi), a l'altro, dunque alla realtà purché non immiserita nei suoi aneddoti piattamente realistici.