Recensioni / Scrivere è architettura

La raccolta di scritti la Fine del Classico[1] uscita nel 1987 è stato il libro con cui ho scoperto Peter Eisenman, ovvio conoscevo i suoi edifici[2], ma non il fatto che prima di tutto un architetto doveva provare a scriverli i suoi progetti. Doveva trovare una forma teorica capace di rappresentarli in un modo altro, un dispositivo da interpretare.
La scrittura per Eisenman infatti non è descrizione, non è narrazione di un processo generativo, è semplicemente un’ altra forma di progetto, un modo critico per analizzare ed indagare un concetto, che in seconda battuta può diventare spazio.
Scrive Roberto Damiani nella postfazione all’edizione italiana "L’architetto deve ampliare i propri strumenti tradizionali oltre il disegno, includendo la parola sotto forma di scrittura e come produzione di concetti per comunicare le idee in un modo più trasmissibile e aperto a successive modificazioni".
Per Eisenman le successive modificazioni assumono un ruolo centrale.
Molti architetti hanno codificato le regole dell’architettura attraverso la scrittura se pensiamo ai trattati di Vitruvio, Palladio, Durand, o agli inizi del novecento Le Corbusier e Wright hanno cercato di riscriverne le regole attraverso l’uso di forme narrative diverse tra loro, manifesti, autobiografie rivolte non più ad un pubblico di addetti ai lavori, ma ad un pubblico più vasto, il pubblico che l’ architettura la vive quotidianamente.
Il libro era il medium attraverso il quale diffondere le proprie idee.
Negli anni sessanta qualcosa cambia con la diffusione di nuove forme di comunicazione, allora la scrittura si adegua, cerca contaminazioni e confronti con altre forme d’arte e comunicazione, ed è in questo periodo che l’architettura concettuale eisenmaniana sente il bisogno di evolversi in maniera autonoma, riscrivendo dalla base le regole del pensare la disciplina, quindi non un esigenza di comunicare ma un esigenza di far evolvere la struttura costruttiva dello spazio e codificare i metodi attraverso il quale questo spazio può prendere forma.
Così per Eisenman scrivere di Terragni significa da un lato analizzare, ma dall’altro interpretare e riscrivere Terragni. Il suo modo di vedere l’architettura del maestro del razionalismo lo porta verso un’ altra architettura, Terragni non esiste, Terragni l’ho inventato io, Terragni sono io, scrive. Ma non per togliere valore all’architettura dell’architetto Italiano, ma se mai ad aggiungerne. La scrittura come sistema analitico e di reinterpretazione, un metodo attraverso il quale scrivere o meglio sovrascrivere il progetto.
Quello che il mio lavoro ha scoperto è che le caratteristiche principali condivise dal classico e dal moderno – geometricità, stabilità e normalità – reprimono le altre possibilità di un’interiorità dell’architettura. Lo studio di queste repressioni inconsce ha costituito la base della teoria critica fin dal XIX secolo, ma questi studi hanno raramente incluso l’architettura. È all’interno di tale contesto critico che mi è sembrato possibile allontanarmi dai paradigmi tradizionali dell’architettura e tentare di descriverne la condizione interiore attraverso un paradigma considerato come esterno all’architettura, ovvero il paradigma linguistico. [3]
Eisenman è un architetto ma anche un educatore e quindi prima di raccontare ai suoi studenti i grandi architetti del passato li racconta a se stesso e li trasforma attraverso la scrittura, dopo Terragni sarà la volta di Palladio. Oggi a distanza  dalla sua pubblicazione originale la Quodlibet (dopo aver tradotto un altro scritto fondamentale Giuseppe Terragni: trasformazioni, scomposizioni, critiche) mette a segno un altro colpo importante tradurre e presentare in un unico volume INSIDE OUT gli scritti che vanno dal 1963 al 1988 (usciti per Yale University press nel 2004 con lo stesso titolo) 500 pagine e ci fermiamo a ventisei anni fa.
Secondo Eisenman c’è una forte continuità fra l’architettura classica e quella modernista: entrambe hanno privilegiato certi aspetti dell’architettura e ne hanno messi in ombra altri; ragionando sull’architettura con gli strumenti dell’architetto si rischia allora di legittimare la posizione dominante, perché, a causa dell’uniformità di atteggiamento dei classici e dei moderni, poco si può apprendere relativamente agli aspetti dimenticati dell’architettura. Per portare allo scoperto questi aspetti è meglio allora rivolgersi ad altre forme di elaborazione concettuale, come quello offerto dal linguaggio.
La parola genera spazio e la scrittura gli da forma concreta, producendo concetti che diventano metafore su cui costruire la forma, in un metodo interpretativo di costruzione del significato che ricorda l’Atlante di Aby Warburg in cui il concetto serve prima di tutto ad organizzare i singoli frammenti. Così Eisenman lo usa come dispositivo per organizzare il diagramma generativo della sua architettura, che nel processo di costruzione del progetto si sovrappone e confonde con la scrittura.
La sovrapposizione tra educatore, architetto e critico confonde a volte, ma è essenziale per comprendere a pieno il suo modo di progettare che è prima di tutto analitico, Eisenman infatti cerca di trovare la linea evolutiva delle idee piuttosto che creare un iconografia riproducibile all’infinito, ed in questo processo la sua idea di progetto mantiene la sua totale autonomia.
Uno dei testi più belli e importanti del libro (oltre al già citato La fine del Classico) è Appunti sull’architettura concettuale. Verso una definizione. Qui Eisenman costruisce il palinsesto di tutto il suo pensiero, si confronta con le ricerche che nello stesso periodo investivano il mondo dell’arte, Sol Lewitt, Robert Morris, Donald Judd, cerca di tradurle e attualizzarle al pensiero architettonico, ci si confronta, le interpreta applicandole all’architettura di Robert Venturi e Giuseppe Terragni, cerca di codificare i codici dell’arte concettuale per scrivere appunto quelli dell’architettura, la parola diventa per lui per la prima volta forse uno spazio da abitare. E continua senza sosta da mezzo secolo a riscrivere questo testo in infinite versioni che si attualizzano confrontandosi con la contemporaneità, facendo di Eisenman oggi l’unico architetto degno di far parte della storia dell’architettura perchè non produce solo edifici che codificano un linguaggio ma un pensiero che parla la lingua dell’architettura classica.

[1] Eisenman, Peter La fine del classico e altri scritti cluva editrice venezia 1987

[2] La prima conferenza a Roma a cui ho assisitito si era tenuta al teatro delle vittorie nel Quartiere Prati di Roma, l’aula magna della facoltà non era attrezzata per accogliere il numero di studenti che avrebbe partecipato. L’ultima la settimana scorsa a Bologna, ancora una volta l’aula magna della facoltà di Ingegneria era completamente gremita di pubblico l’occasione la presentanzione del volume Inside Out.

[3] Peter Eisenman nell’ Introduzione al volume Inside out pag. 16