Recensioni / La linea del fuoco

"La linea del fuoco" è il titolo di uno dei primi progetti di Daniel Libeskind. L’occasione era stata offerta dalla realizzazione di un piccolo allestimento pensato per una mostra presso il Centre d’Art Contemporain di Ginevra (1988). Fu allora che Libeskind ebbe modo di mettere alla prova una serie di idee che, pochi mesi dopo, furono alla base del disegno del Museo Ebraico di Berlino presentato al concorso dell’aprile 1989. Il libro edito da Quodlibet e intitolato La linea del fuoco. Scritti, disegni, macchine, evoca dunque l’esperienza dell’esordio e del successo internazionale. La selezione di saggi, conferenze, discorsi e conversazioni ricostruisce con una certa precisione il nucleo fondamentale del pensiero architettonico di Libeskind. Si tratta di una pubblicazione di cui vi era bisogno. Non solo per aver messo a disposizione del pubblico italiano un corpus teorico che era conosciuto solo da pochi studiosi, ma soprattutto perché i testi pubblicati aiutano a comprendere il percorso di ricerca intrapreso dall’architetto. Libeskind deve molto all’Italia. È a Milano che oggi sta realizzando importanti progetti, ed è nel capoluogo lombardo che decide di trasferirsi con la famiglia durante gli anni ottanta. La scelta di pubblicare in appendice quello che appare come una sorta di dialogo poetico tra Aldo Rossi e lo stesso Libeskind, catapulta il lettore in quegli anni lontani. Viene presentato un mondo di rimandi e analogie inaspettate in cui i due architetti, nel parlare ciascuno del lavoro dell’altro, guardano profondamente in se stessi. Rossi e Libeskind si erano conosciuti presso la Cranbrook Academy, nel Michigan, e si avvicinano intellettualmente attraverso il tema del disegno, stabilendo un enigmatico sodalizio nella Biennale di Venezia del 1985, intitolata "Progetto Venezia". Sollecitato a partecipare da Rossi, a quel tempo direttore del settore architettura, Libeskind viene premiato per il suo progetto per le piazze di Palmanova. È in quell’occasione che presenta le tre “macchine” illustrate nell’apparato iconografico del libro. Gli anni novanta offrono invece nuove prospettive. Il grande pubblico degli architetti italiani non conosce ancora Libeskind, ma nel 1994 l’intransigente storico e critico Bruno Zevi decide di dedicare un fascicolo della rivista "L’architettura. Cronache e storia", ai suoi lavori. In contraddizione con i criteri selettivi di Zevi, che prediligeva pubblicare opere costruite, vengono proposti ai lettori i disegni di numerose riflessioni architettoniche non realizzate di Libeskind. Zevi era stato tra i primi a individuare nel progetto del Museo Ebraico le inquietudini che animavano la produzione di Libeskind, tanto da segnalarlo come uno dei protagonisti dell’incidenza ebraica nell’architettura contemporanea (cfr. Bruno Zevi, Ebraismo e architettura, Firenze, La Giuntina 1993). Purtroppo il curatore Dario Gentili, nella sua postfazione, nulla ci dice di tutto questo, preferendo interrogare il lettore sul rapporto tra spazio e democrazia, questione cruciale e tema caro all’architettura di Libeskind. Gentili evidenzia giustamente come la ricerca teorica di Libeskind sia centrata sul concetto di spazio inteso come luogo “dell’invisibile e dell’inappariscente […] dell’assenza”. Non è un caso che i suoi scritti alludano a continui viaggi all’origine della modernità, guardando alla memoria come a un meccanismo intellettuale capace di suggerire nuovi percorsi della storia. In fondo i disegni selezionati per questa pubblicazione, provenienti dalle raccolte "Micromegas" (1979), "Chamberworks" (1983), "Theatrum mundi" (1985) e "Sonnets of Babylon" (2011), stimolano un’idea di architettura fondata sul dissidio ragione-emozione, carica di complessità e contraddizioni, molto distante dai "fundamentals" architettonici recentemente individuati da Rem Koolhaas. Nell’introduzione al libro, il figlio Lev evidenzia la programmatica non sistematicità delle teorie elaborate dal padre. E infatti questa capacità unica di coinvolgere nel processo architettonico gli stimoli provenienti dal mondo della musica, della letteratura, della filosofia è probabilmente uno dei caratteri distintivi dell’architetto, il quale dichiara di aver cercato di “creare un’architettura diversa, adatta a un’epoca che vorrebbe rispecchiare una certa comprensione della storia”, sottolineando dunque il contenuto etico della disciplina architettonica. Tuttavia, la tensione trasmessa dalle parole non è sempre allineata all’ansia costruttiva da cui scaturiscono alcuni lavori più recenti di Libeskind. L’insieme dei disegni sembra essere usato talvolta come un abbecedario di forme per nuove creazioni, dissimulando un abile manierismo. Altre volte un progetto si trasforma da edificio in scultura urbana o in elemento di design, avviando un processo che smarrisce il senso di quella narrazione che è in realtà alla base del suo pensiero. Sono i rischi che si corrono nella gestione di uno studio professionale impegnato in molti progetti allo stesso tempo. Eppure se Franz Kafka con le sue Metamorfosi ci ha insegnato a indietreggiare guardandoci allo specchio, grazie a edifici come il Museo Ebraico abbiamo capito che il castello dell’umanesimo classico si è in gran parte infranto. Questo libro ci accompagna in quella stessa crisi intellettuale. “Cercare di afferrare l’architettura in parole” è il tentativo messo in atto da Libeskind con i suoi testi.