Gilles Clément racconta la sua storia di dolorose peripezie dopo che il padre lo ha sfrattato dalla casa di famiglia
Lui che aveva provato orrore per la furia con cui il padre aveva tenuto immacolato il prato sparando alle talpe e spargendo micidiale glifosate, cerca un luogo lontano dalla crudeltà, dove le violenze pertengano se non altro all’ordinaria catena predatoria: la lucertola e la mosca, la talpa e il verme, la faina e il topo, il bruco e la rosa canina. Per due anni gira in lungo e in largo, nulla lo convince. Torna allora nel paesaggio a lui caro del Limousin. Accetta l’invito a bere un bicchiere da una compaesana, Fernande, che gli chiede: ci vai ancora laggiù? Perché Marcel – e pazienza se, più ricco e meglio equipaggiato, rappresenta il vicino da combattere secondo le regole ancestrali delle lotte tra clan – potrebbe vendergli qualche ettaro. Laggiù designa una valle in cui scorre, di radura in radura, un ruscello. Non ci va nessuno, salvo i cacciatori d’inverno, ma tutti lì intorno a Crozant sanno che era quello il territorio di meraviglia delle sue escursioni solitarie di ragazzino, quando lo vedevano attraversare i campi, sparire nei costoni intorno al lago, tornare con raccolte di fiori, fogliame, insetti catturati in un barattolo fissato alla cintura.
Il suo giardino segreto, in altre parole, quello dove in una libertà selvatica era cresciuto lontano dallo sguardo sacrilego dei grandi. È laggiù che la sua immaginazione ha preso il volo, in quel piccolo regno in cui si può adesso insediare portandosi dietro sette amici dal ‘68. Con loro costruisce al di fuori di ogni logica prestabilita. L’elettricità a certe condizioni, il pianoforte subito. Negozia con le autorità locali i permessi per tirare su i muri a modo suo, con le pietre, si sottrae all’allargamento della strada, sventa le incursioni di gendarmi sospettosi di quel covo di rivoluzionari. Non dell’ordine costituito nel senso corrente del termine, ma di quello giardiniero. Inizia dal lavoro più urgente, l’orto: che considera il giardino tout court, la prima stanza della casa, quella che richiede più attenzione e riguardo: ammendare, pacciamare, allontanare le erbe concorrenti, seminare, diserbare con delicatezza, sfoltire, diradare, potare, proteggere da conigli e lumache, dall’eccesso di sole, lasciando venire su le aquilegie e le sileni bianche che accompagnano pomodori e zucche. A partire da lì, il resto. Mentre interviene nel luogo prima intangibile dell’infanzia trasformato, grazie all’acquisto, in cinque ettari di laboratorio all’aperto, dà forma a quei concetti allora nuovi che pochi decenni dopo, con opere come il giardino del Musée de l’Homme del guai Branly e il Domaine du Rayol in Costa Azzurra, svettano sul crinale delle idee acquisibili: giardino planetario, in movimento, vagabondo, incolto, terzo paesaggio. Formule dal suono astratto però desunte ascoltando tutto ciò che la campagna detesta: la natura. Alla piattezza e all’ordine dell’agricoltura Clément preferisce gli uccelli, i trilli e gli stridii, il latrare dei caprioli, il canto dell’allocco, i rovi e le ortiche, la processione dei bruchi, il gelo e il temporale, i fiori imprevisti, le cetonie disposte come una collana su una ginestra disfatta. Consapevole di essere lui l’intruso andato a stare dagli animali, sta attento a ogni residuo: feci, escrementi, segni di denti, tane, le varie architetture di un popolo legittimo cui ogni intervento umano sottrae una parte di territorio. E così costruisce lasciando nelle intercapedini spazio per ghiri e topi, faine e colubri, calabroni e cince. Anche in giardino, dà la precedenza al paesaggio così come lo trova, trattandolo alla stregua di una partitura in cui orchestrare l’ingresso dei diversi strumenti musicali: un crescendo di azalee, la solitudine di un tasso barbasso, la presenza maestosa di angeliche arcangeliche ed eraclei mantegazziani, infine, discendendo il ruscello, le foglie gigantesche della nalca, gunneracea cilena al cui riparo gli uomini sembrano elfi. Sullo sfondo si leva fino al cielo e divide in due la Vallée la grande katsura o albero del caramello che d’autunno spande da foglie soffuse di rosa una strinata fragranza zuccherina. Della Vallée si comincia a parlare, a quel figlio che pareva con la testa persa tra le nuvole arridono fama e riconoscimenti. Suo padre si ricrede e lo riammette, dopo tanti anni, alla Grange. Nulla è cambiato. Restano un po’ seduti in silenzio, come a misurarsi, poi il vecchio dal contegno dignitoso, un mestiere senza brio, l’arte cavalleresca di corteggiare le signore abbassa la guardia, lo stesso fa il figlio. Superano debolezze, pudore, esitazione. Al cader della notte si abbracciano. È la prima volta.