Venja non ha mai visto il Cremlino. Questo romanzo sgangherato si apre
con tale considerazione, ma il protagonista non ha tempo di pensarci;
deve affrettarsi a raggiungere la stazione, da cui prenderà il treno per
Petuškì, dove lo aspetta la sua donna, ma dove non arriverà. Venja,
alterego dell’autore, è un ubriacone disoccupato, che pare di vedere
bighellonare per strada e che intrattiene chi gli capita a tiro con
aneddoti e considerazioni farnetiche. In realtà, i suoi, sono tutt’altro
che i vaneggiamenti di un pazzo: tramite monologhi e conversazioni
(intraprese con compagni di viaggio reali o fittizi), che colpiscono per
lucidità, acume, nonché profonda autocritica, il protagonista conduce
un’analisi viscerale sulla società in cui è immerso, che non lascia
scampo ad alcuna contraddizione e debolezza dell’uomo del suo tempo.
Venja ci racconta di come le condizioni di lavoro in Russia siano
assolutamente precarie e alienanti, di come la rivoluzione abbia
fallito, scadendo in un’inerzia burocratica avvilente, di come tutti gli
ideali e ogni forma di fiducia (in Dio, nell’amore, nel prossimo) si
siano pian piano svuotati di significato, lasciando spazio alla
solitudine, allo smarrimento, e all’alcol.
Siamo negli anni ’70: quella che fa da sfondo al viaggio allucinatorio
del protagonista è una Russia slabbrata e zoppicante, una culla di
incongruenze e delusioni, rappresentata dai suoi treni lenti, le sue
bettole e i volti stanchi dei suoi figli. In questo contesto, l’alcol ha
un valore fondamentale, salvifico; rappresenta una valvola di sfogo e
una fonte di sogni per gli uomini che cerchino riparo alla miseria e
all’isolamento. Non è un caso che Venja, perennemente «inciclonato»,
proprio grazie all’effetto della vodka dia origine a colloqui e visioni
surreali, che si pongono come un mezzo di evasione da questo mondo da
cui si sente oppresso.
Nonostante questa necessità di fuga, ciò che maggiormente colpisce
consiste nel fatto che le considerazioni del protagonista non mancano
mai di una pura quanto disperata umanità, che Venja cerca per tutto il
viaggio, a partire dai gestori di un bar in cui cerca di acquistare
altro alcol, dai suoi compagni di viaggio, dai suoi interlocutori
fittizi (angeli, Dio, Sfinge, Satana), fino ai suoi assassini. Ciò che
Venja cerca e chiede agli altri è un riconoscimento umano, una
possibilità di fiutare sentimenti, un barlume di commozione, di
resistenza alla miseria e all’incomunicabilità. Questo lo rende spesso
incompreso, lo relega allo status di anima solitaria, ma irriducibile
nel suo coraggio.
Venja si rivolge così al suo pubblico in maniera urlante, disperata: c’è
una tale urgenza comunicativa in lui, che è probabilmente questa
costante richiesta di ascolto, che ci convince a intrattenerci con lui, e
che, nel buio della realtà che descrive, ci fa intravedere un accenno
di speranza. E si intuisce con forza questo intimo bisogno di credere in
una qualche forma di riscatto umano: «Mi rivolgo a tutti i parenti e
agli intimi, a tutti gli uomini di buona volontà, mi rivolgo a tutti
quelli che hanno un cuore aperto alla poesia e alla compassione».
In questo immaginario desolante, Petuškì, la meta del protagonista, si
pone come luogo incontaminato, primordiale, in cui vige una sorta di
inscalfibile età dell’oro: «Petuškì è un posto dove gli uccelli non
smettono mai di cinguettare, né di giorno né di notte, dove né d’estate
né d’inverno sfiorisce il gelsomino. Dove il peccato originale – forse è
estinto davvero – non tormenta nessuno. Lì, anche quelli che restano
inciclonati per delle settimane, hanno lo sguardo senza fondo e
limpido…». Un sogno, insomma, a cui Venja sembra non avere alcuna
intenzione di rinunciare, perché Petuškì, come la vodka, è ciò che al
mondo rappresenta tutto quel che di buono gli umani devono cercare,
l’ideale a cui è giusto tendere, in un mondo fatto solo di
incomprensione e indifferenza.
In linea con la vena polemica del protagonista-autore, la scrittura del
romanzo è vivace e serrata, grazie anche al costante stream of
consciousness in cui Venja si immerge. Lo stesso fatto editoriale che il
romanzo circolasse in samizdat (autopubblicazione clandestina di testi
censurati), ci dà indizi sul fatto che il testo recasse in sé un taglio
critico di rilevante portata. Ci sono alcune bizzarre trovate
sperimentali (basti pensare alla scelta di intitolare i capitoli con i
nomi delle stazioni ferroviarie della tratta Mosca-Petuškì), inoltre
tutto il testo è intriso di riferimenti letterari, senza mai approdare
però a un vacuo eruditismo: i capisaldi della letteratura russa –
Turgenev, Čechov, Dostoevskij, Puškin – diventano qui personaggi con cui
Erofeev si farebbe volentieri qualche bicchiere, con cui condivide quel
«dolore universale» che caratterizza e allo stesso tempo condanna le
anime dotate di intelligenza e sensibilità più acute.