Nella traduzione di Maria Teresa Costa appare in italiano, a quasi sei
anni dalla pubblicazione in lingua originale, il testo di Sigrid Weigel
che promette di offrire un rilevante, acuto contributo agli studi
sull’opera e il pensiero di Walter Benjamin.
Categoria centrale di questa analisi è la «dialettica della
secolarizzazione», espressione con la quale l’autrice, non nuova alla
frequentazione del filosofo, definisce un movimento di pensiero che vede
all’opera fin dagli scritti giovanili – dal saggio Sulla lingua in
generale e sulle lingue degli uomini del 1916 – per giungere alle
ultime, assai citate ma forse non altrettanto comprese, Tesi sul
concetto di storia del 1940. Il tema della dialettica della
secolarizzazione illumina la modalità di lettura della storia (e della
storiografia) propria di Benjamin, tutta intrisa della separazione
radicale tra il piano della creazione e quello della vicenda terrena, ma
anche della tensione insuperabile introdotta dalla ricerca umana della
felicità, con il suo riferimento agli oltre-umani concetti di giustizia e
salvezza.
Dalla Caduta ha inizio, per Benjamin, la storia del genere umano: una
storia che, se la guardiamo disegnarsi al modo della monade di
leibniziana memoria rivisitata nel Dramma barocco e fino agli appunti
consegnatici nel Passagen-werk, sta intera tra la preistoria dell’Eden e
la post-storia della Redenzione. Ripensarla in questi termini significa
sciogliere la visione cronologica e l’impostazione consequenziale, per
pensare a una scrittura della storia che si organizza intorno a punti di
tensioni emergenti, ad «attimi di pericolo» che rendono il lavoro dello
storico una necessità impellente, un obbligo che chiama – e fa della
scrittura una risposta, un nominare-appellare (Anruf), piuttosto che un
descrivere o raccontare.
Della riflessione intorno a cosa significhi “fare storia” è intessuto il
testo di Weigel, che potrebbe trovare un suo spazio all’interno di
dibattiti attuali come voce che rivendica a Benjamin un ruolo tuttora
non del tutto compreso – nonostante la moda delle sue interpretazioni –
all’interno del dibattito sulla Modernità e sul nostro presente. In
questo senso Weigel prosegue e sviluppa il lavoro avviato da La storia e
il suo angelo (originale Der Engel der Geschichte. Franz Rosenzweig,
Walter Benjamin, Gershom Scholem, trad. italiana Milano 1993) di Stephan
Mosès, alla cui memoria il presente volume è dedicato.
Anzitutto è ad una lettura della Modernità come epoca della
secolarizzazione che Benjamin, sulla base di riferimenti puntuali e resi
finalmente “evidenti”, viene contrapposto, quale autore di uno
smascheramento: la secolarizzazione, come perdita del sacro e ancor più
trasferimento sul piano profano e mondano – fino alla pura Natura e alla
«nuda vita» – di domande e significati provenienti da un piano
religioso, produce una lettura della storia univoca che si sposa tanto
con il concetto illuminista, ma ancor più positivista di progresso,
quanto con una interpretazione lineare che finisce per giustificare i
trionfatori. La teologia nascosta disarma le potenzialità salvifiche
dello stesso concetto di rivoluzione, come dimostra la storia della
socialdemocrazia tedesca, drammatico riferimento polemico del Benjamin
più maturo: il materialismo storico, come recita la prima famosa Tesi
sulla storia, ospita, nascosta come si conviene ad ogni buon concetto
secolare, la potenza teologica della redenzione ridotta però (tradendo
Marx e certamente il Marx di Korsch, del quale Benjamin fu attento
lettore) a meccanismo che non scardina, bensì finisce per riproporre la
catena mitica di colpa e destino (cfr. p. 143).
Due momenti della storia del Moderno interessano a Benjamin da questo
medesimo punto di vista, la critica al concetto invalso di
secolarizzazione; due “oggetti”, diversi, dimenticati, che innestano una
potenzialità dialettica nell’esperienza dell’uomo comune: l’allegoria
barocca e la fotografia, dalle sue origini ottocentesche all’ingresso
nel cinema. Tanto la prima che la seconda spezzano la linearità univoca e
progressiva del tempo secolarizzato: l’allegoria inchiodando alla
caducità del dettaglio, che aprendosi come abisso spezza l’immediatezza
della vita rimandando allo stato creaturale (dalla Creazione, cfr. pp.
31-34) inafferrabile dell’essere; la fotografia fissando l’esperienza
vissuta dello shock e dell’equiparazione da mercato di tutti i momenti
possibili, che negando il valore progressivo del tempo rimandano la
speranza (se ancora è sensato pensarla) all’ineffabile dimensione del
messianico. Polarizzando, ciascuno a suo modo, la temporalità storica
tra Creazione e Salvezza, questi elementi svelano la mistificazione
insita in un’accettazione non avvertita (persino ai livelli alti, dotti,
di studio e riflessione) del concetto di secolarizzazione e mostrano il
loro ruolo reciproco nell’opera di Benjamin come nuclei per una lettura
dialettica del proprio presente. Significativamente Weigel concentra la
propria lettura degli scritti sulla fotografia non tanto sulla vexata
quaestio della riproducibilità dell’opera d’arte – persino l’aura si
ritira momentaneamente sullo sfondo – bensì piuttosto sulla struttura
della temporalità che la fotografia (e poi il cinema) introducono
nell’esperienza degli uomini del loro tempo, fissando e organizzando
forme che la catena di montaggio, la prima guerra mondiale, la città
abitata dalle masse hanno reso quotidiane. La storia culturale del
Moderno letta attraverso la storia dei media (cfr. pp. 259-260) si
allontana da un resoconto di progressi tecnici per far emergere le forme
della percezione che a questi ultimi si rivolgono e in essi mostrano le
inquietudini che la storiografia ufficiale sottace. Fotografia e cinema
si fanno allora, per Benjamin, non solo oggetto ma metodo stesso dello
studio, rimandando ad una loro “necessità strutturale” chiamata
dall’epoca delle masse per un nuovo accesso, ormai impellente anche
quando obliato, alla comprensione di quel contemporaneo che da tante
parti, con insistenza feroce, mostra di essere situazione di emergenza.
Si ricordi che per Benjamin la contemporaneità non si misura sulla linea
cronologica ma si sostanzia nell’atto che disegna, nell’attimo del
pericolo, la monade storica come scorcio sul mondo intero. Il Moderno
può divenire allora «presente» (Jetztzeit) per lo stato di emergenza che
si individua tra la prima guerra mondiale e l’emergente nazismo, così
come, suggerisce Weigel, nel nostro oggi post-atomico e post-ideologico
in cui il sacro e la vita, nel terrorismo fondamentalista che appartiene
alla quotidianità – quella del 2008 in cui Weigel scrive, quella del
2014 in cui la leggiamo – tracciano una nuova costellazione ancora da
studiare.
Allegoria e fotografia sono accostate e non per caso per la loro
dimensione letteraria (la fotografia è per il XX secolo, ci dice
Benjamin, il nuovo alfabeto) e immaginale insieme. Se molti interpreti
si sono affannati intorno alla natura dell’«immagine dialettica»
benjaminiana, molto pochi sono per converso quelli che hanno dedicato la
propria attenzione alle immagini di cui Benjamin parla nei suoi testi.
Weigel sceglie invece di soffermarvisi, sia sulle immagini scelte e
ricordate – siano quadri, opere di grafica, fotografie appunto – sia
sulle immagini letterarie costruite dal filosofo-scrittore (un capitolo
del libro è dedicato specificamente alle traduzioni, in particolare a
quelle in inglese, e al carattere in fondo “intraducibile” della lingua
di Benjamin), sottolineando l’irriducibilità della Bild in quanto
oggetto o prodotto del pensiero (Denkbild nel duplice senso) ai
tentativi di resa o “versione in prosa”. Le immagini benjaminiane non
sono metafore ma grumi, costellazioni, non spostano ma trattengono:
spezzano il fluire del discorso e della comunicazione come quello del
tempo, quasi porte dalle quali potrebbe – con atto eminentemente
nichilistico – entrare il Messia. L’immagine dialettica fa il paio con
l’irrappresentabilità della speranza e della salvazione, che condannano
ogni tentativo in questo senso alla ricaduta nella mitologia della
Natura e della nuda vita (come accade ai personaggi di Goethe ma anche a
quelli del Mahagonny di Brecht). La sacralizzazione dell’umano ha
bisogno di quell’ordine che sfugge all’espressione, l’ordine teologico
di matrice biblica che Benjamin riconosce invece all’opera, sotterranea
potenza dialettica, nella necessaria sconfitta dei personaggi kafkiani.
Nessuna politica, a meno di reintrodurre surrettiziamente il teologico
nel proprio spazio radicalmente altro, può assumere sulle proprie spalle
il carico della Promessa. Né può farlo un’estetica politicizzata, o una
politica-estetica. Tanto è incancellabile la domanda di felicità,
quanto è innegabile che la risposta non è “di questo mondo”, non è della
lingua che si è fatta strumento di descrizione e ha posto a suo
criterio la verità (cfr. la critica benjaminiana all’interrogazione
socratica, p. 41). La domanda di felicità non trova risposte né
nell’epistemologia né nella variante tribunalesca della verità, nel
diritto e nel castigo. La domanda è un appello a Colui che solo può
rispondere, e la cui risposta sarà una chiamata, la chiamata di tutti e
ciascuno con il suo nome, dall’inizio dei tempi. Tra chiamata divina e
risposta umana sta lo spazio della sacralizzazione della vita, che sacra
non è in quanto «nuda vita» (qui Weigel discute esplicitamente
l’interpretazione di Giorgio Agamben) ma in quanto si colloca
indefinitamente nella tensione tra due ordini irriducibili. La «nuda
vita» non è che un prodotto deteriore di una secolarizzazione
adialettica, un’aberrazione (cfr. p. 39) che – insieme alla
banalizzazione sempre più corrente dei cosiddetti “diritti umani”–
mantiene gli uomini all’inferno, al di qua della possibilità di
un’autentica giustizia. Tanto Benjamin rifiuta l’idea di una teocrazia
quanto ogni sua trasfigurazione laica, sotterraneamente animata
dall’incarnazione terrena della messianicità. Nella «doppia referenza»
cui Weigel rimanda (p. 51) si colloca il luogo della «responsabilità»
umana, senza garanzie, né di verità, né di sicurezza da parte di un
ordine divino che si è ritirato dalla storia profana. La domanda
politica resta aperta e interroga con tanta più forza l’ordine delle
attuali istituzioni sociali perché se è vero, con Horkheimer, che i
morti restano pur sempre morti, ai vivi è affidato il compito della
redenzione intera della storia: non del suo compimento teleologico, ma
del suo annichilimento quale condanna. Può la collettività assumere
sulle proprie spalle questo ruolo? Le forme d’arte di massa producono
un’intellettualità materialistica che sospende momentaneamente la folle
corsa infernale offrendone un doppio “a portata”: non della consolazione
estetica o moralizzante, ma della radicale destrutturazione
dell’esperienza propria del XX secolo. Una consapevole restituzione del
nichilismo mediatico come esempio di una politica d’emergenza non ancora
esperita.
Quale speranza rimane, se una rimane, per questo mondo radicalmente
altro da quello della Creazione, da quale porta sbirciare il possibile –
ma assolutamente improbabile, ché non è di un ordine di possibilità
matematico o scientifico che si parla qui – arrivo del Messia? Che sia
compito infinito della filosofia tenere aperti spiragli, come brecce nel
percorso di quell’uomo radicalmente “storico” che è l’uomo moderno?
Filo-sofia distinta dall’eros socratico (cfr. p. 242), mossa da amore
«melanconico», come la descrive la Premessa al Dramma barocco, toccata
dalla bellezza che arde senza mirare alla riduzione in cenere: distinta
dall’arte e nemica della sacralizzazione del suo verbo (monito a tante
interpretazioni esoteriche di Benjamin), pur senza pretendere, affatto,
di dissolvere ogni velo, presa nella tensione tra verità epistemologica e
affiorare di ciò che non trova espressione (Ausdrucklose) e in cui
l’ordine autentico dell’uomo si lascia, forse, intravedere. Compito di
questa filosofia non è indicare una via, ma spezzare un incedere sicuro e
inconsapevole – come fa la fotografia quando dalle immagini del
camminare dell’uomo fa emergere l’inconscio ottico. In queste brecce
stanno la forza e il senso dello «studio»: di un sapere e un
atteggiamento radicalmente votati all’insuccesso commerciale e alla
perpetua, elettiva incapacità di tenere il tempo del Moderno.