Recensioni / Humboldt, o dell'immaginazione

Un’immagine ci arriva dalla stratosfera. Striature di bianco fanno da intermezzo a larghe chiazze di grigio, che s’inffitiscono in linee più scure: sono i filamenti dei cumuli e cirrocumuli (il bianco); è il suolo terrestre (il grigio); sono le strade, le linee ferroviarie, forse i solchi regolari delle grandi piantagioni americane (il grigio più scuro). Commentando una delle prime fotografie scattate dalla stratosfera, il geografo Eugenio Turri osservava in Antropologia del paesaggio (1974) che, anche vista da così lontano, la Terra denuncia sempre le tracce della presenza umana.
Su questo stesso problema Turri sarebbe tornato trent’anni dopo con Taklimakan: il deserto da cui non si torna indietro, in cui è presentato, tra l’altro, il seguente, vertiginoso processo mentale: si pensa ai primi viaggi nello spazio, ci si intristisce per il fatto di non poter partecipare a quella straordinaria esperienza se non attraverso i racconti degli astronauti, si sposta il volto verso le dorsali cenozoiche delle Alpi e, ammirandole per l’ennesima volta, si capisce d’improvviso che lo stesso silenzio minerale che avvolge il cosmo si trova anche su questo pianeta. La madre-Terra condivide la stessa distanza siderale che gli astronauti hanno avuto negli occhi. Quaggiù e lassù si assomigliano: sono entrambi extra-terrestri, extra-umani.
Vengono in mente anche queste cose quando si legge l’antologia del Viaggio alle regioni equinoziali del Nuovo Continente di Alexander von Humboldt: anche grazie all’introduzione di Franco Farinelli (che peraltro tante volte ha recato omaggio a Turri), nella quale s’invita il lettore a riconoscere in questo libro tre diversi racconti: quello del viaggio, quello dei paesi attraversati e quello delle condizioni culturali del mondo cui il viaggiatore appartiene.
Farinelli c’invita insomma a leggere il carattere profondamente politico dell’opera di Humboldt, aristocratico convinto delle ragioni del pensiero illuministico e delle prospettive liberali della borghesia tra Settecento e Ottocento, che proprio fece del rapporto tra osservazione e misurazione la chiave di volta per la conoscenza (e il dominio) del mondo. Al tempo stesso, però, mostrando come Humboldt realizzi «una relazione continua e dialettica» tra osservazione scientifica e «immaginazione all’aria aperta», Farinelli ci suggerisce di considerare anche le ragioni dell’immaginare e dell’immaginario, che altrettanto legittimamente vanno collocate alla base di ogni attività scientifica e che nel volume sono valorizzate dalle splendide immagini di Arienti.
Lo si vede già nelle primissime battute del racconto, quando Humboldt, che si accinge a salpare dal porto di La Coruña, paragona la baia iberica alla Laguna del Obispo nel «nuovo mondo», concludendo che «nel mezzo della varietà che la struttura presenta […] si osserva un’analogia di struttura e di forme». Il metodo dell’osservazione immaginale, del riconoscimento delle analogie morfologiche del pianeta è seguito costantemente dall’autore, che a Tenerife spiega l’origine «di due piccole colline che si elevano in forma di campana» sulla base di «osservazioni fatte sul Vesuvio o in Alvernia», mentre apparenta l’«argilla indurita» al «tufo di Posillipo» e «agli strati di pozzolana» nella valle di Quito.
Il sistema delle analogie e del confronto va di pari passo con una sorta di «critica della misurazione», che è un altro aspetto importante di questo grande classico del pensiero geografico occidentale (e forse del pensiero tout court). Proprio perché gira il mondo (il nuovo e il vecchio) con barometri, cronometri, igrometri e termometri, Humboldt è sempre attento agli aspetti qualitativi di ciò che lo circonda: colori, temperature, salinità dell’aria, umidità sono da lui considerati sia nel risvolto percettivo, o insomma della sensazione, sia nel risvolto oggettivo, e dunque della misura.
Al rendere visibile attraverso la trasposizione su carta di valori metrici, l’iniziatore della nuova geografia contrappone dunque, da una parte, il racconto del visibile, dall’altra la verifica della misura attraverso il confronto dei valori. Per questo motivo Humboldt sente di dover spiegare che la visibilità (proprio quella su cui si poggia la possibilità stessa di individuare un punto sugli assi cartesiani cui riduciamo abitualmente il mondo) dipende dallo «stato dell’atmosfera». E per questo stesso motivo s’impegna a dimostrare che l’errore nell’individuazione delle longitudini di alcuni siti americani va addebitato alla falsa posizione attribuita al porto di partenza: il che non vuol dire soltanto che la misura – come si studia ancor oggi a scuola – va sempre considerata sulla base dell’errore medio, ma che essa è minacciata da un errore più insidioso, che proviene dalla stessa trasformazione del concreto luogo di partenza – infisso nel mondo – in un astratto punto geometrico.
Striature di bianco fanno da intermezzo a larghe chiazze di grigio, che s’infittiscono in linee più scure: la variazione di colori ci porta dal cielo alla terra, e qui distinguiamo le distese naturali dall’operato dell’uomo. La lezione di Turri, insomma, era già presente nel suo antenato: il quale, mentre attribuiva la forma di una collina all’evento sismologico che l’aveva generata o mentre spiegava le condizioni della visibilità del picco di un monte, riconosceva pure, nel tessuto della natura, il segno lasciato dagli esseri umani: la presenza di una pianta nelle Canarie e in Asia sarà dovuta alle migrazioni dagli uomini e una grotta in alta quota, trasformata in cimitero, reca il segno del conflitto tra popolazioni nemiche. Nella ricchezza delle sue osservazioni, il testo di Humboldt rappresenta a sua volta un segno: quello di una conoscenza che oscilla tra riduzione della diversità a posizionamento geometrico e riconoscimento, nella varietà del mondo, di quell’«analogia di struttura e di forme» che lo costituisce.
Nota di Andrea Cortellessa
Non credo ci sia oggi su piazza, fra le proposte editoriali che hanno regolare circolazione in libreria (grazie alla lungimirante coedizione con Quodlibet), una gioia per gli occhi paragonabile a quella che donano i libri di Humboldt Books. Ai già graficamente squisiti titoli della collana «Libri di viaggio» (ultimo uscito, terzo della serie, Tutta la solitudine che meritate. Viaggio in Islanda, di Claudio Giunta e Giovanna Silva), nei quali uno scrittore e un fotografo di oggi uniscono le loro forze per rivisitare e anzi «ri-esplorare» terre già note e tante volte descritte, si aggiunge ora il carico da undici della nuova collana «Atlas», di formato più grande, che propone invece veri e propri classici dell’«esplorazione» – quando il mondo era ancora, in parte, terra incognita – corredati da un apparato iconografico d’epoca, o comunque in qualche modo «anacronico» rispetto al presente. Non poteva cominciare, questo nuovo progetto, che coll’autore che alla sigla editoriale ha dato il nome, il fondatore della geografia moderna – presentato dal maggior geografo di oggi, Franco Farinelli (il prossimo titolo, annunciato per i primi mesi dell’anno venturo, è un altro irrinunciabile: L’Africa fantasma di Michel Leiris). Dal punto di vista editoriale, ilViaggio alle regioni equinoziali del Nuovo Continente è semplicemente irresistibile. Buona parte del merito va a Stefano Arienti, artista viaggiatore e bibliofilo se ce n’è uno, che ha illustrato l’edizione impiegando – come quasi sempre fa – materiali bricolés. In questo caso le tavole originali della monumentale princeps dell’opera, uscita in trenta volumi a Parigi fra il 1807 e il 1834: che ha successivamente fotografato, fotocopiato e pirografato. L’effetto è dei più stranianti: come se un artista del passato sognasse, per speculum et in ænigmate, un futuro remoto che – poi – è il nostro presente. Anche questo, certo, è un modo di viaggiare.