Recensioni / Se le lucciole vanno in brodo di giuggiole

Non è vero che il nonsense sia un gioco destinato esclusivamente ai bambini. I dadaisti e i surrealisti, così come molti poeti del Novecento, hanno fatto a pezzetti lo stereotipo vigente e piegato il linguaggio a un uso divertito e divertente: era un modo come un altro per introdursi nei buchi improvvisati nel reticolo della logica, per reagire alla noia dettata dall’ordine. Così, il nonsenso ha rappresentato l’elogio del caos rigoglioso contro il controllo poliziesco della grammatica.
Sappiamo però che quell’infrazione della sfera razionale, con l’assonanza, l’onomatopea, la parola reinventata, sezionata, prestata a significati strani, è da sempre l’accesso proibito (e preferito) al mondo degli adulti da parte dei più piccoli. Un accesso praticato con grande allegria. Ed è qui, in quel sollievo antico, che Toti cialoja ci riconduce. Nel gioco di «tana libera tutti» delle parole, scopriamo quanto è «languida l’anguilla mentre scivola nel fango, la saliva le scintilla come quando balla il tango...». Oppure facciamo la conoscenza della vanità animalesca quando «a Faenza le faine raffinate fan moine, dando rose senza spine, con sorrisi e riverenza, a chi arriva e a chi è in partenza». C’è poi una zanzara di Zanzibar (andava a zonzo, entrò in un bar, zuzzerellona le disse un tal, mastica zenzero se hai mal di mar) e pure un topo senza scopo (cosa vien dopo?). A Parma, invece, vive la tarma che mangia con calma e, in un altrove non ben definito, incontriamo un poeticissimo «orso di bambagia che corre scansando al rugiada...». E le lucciole? Quando possono, loro vanno in brodo di giuggiole.
Il bestiario fantastico e linguistico di Toti Scialoja, inventato per le sue nipotine Alice e Barbara Drudi (che si travestivano per interpretare meglio i personaggi fiabeschi e smorfiosi che molto ricordavano i capricci di loro stesse bimbe), è un delizioso dono anche per quei «grandi» in grado di vedere oltre le apparenze. Soprattutto, permette a tutti di viaggiare in geografie fuori dall’ordinario dove fiumi monti e mari sbucano nei luoghi più imprevisti. Le città nominate sono verissime, ma abitate da stralunati esseri, come ippotami senza popò.
Tre per un topo, il libro pubblicato da Quodlibet (pp.112, euro 18) e rimasto per quattro decenni in un cassetto, unisce insieme disegni e versi scherzosi che Scialoja dedicò alle due ragazzine Drudi (e prima ancora, nel 1961, a James Demby, altro nipote). È grazie al centenario dell’artista (1914-1988) che possiamo girarci fra le mani questo libretto così prezioso (un prototipo delle filastrocche che verranno), offerto ai piccoli di casa, ma non di meno alla adultissima moglie Gabriella. All’inizio, fu un album con la copertina rossa, un giocherello domestico per serate uggiose. Il tempo non lo smangiucchiò: rimase intatto, un gioiello affettivo, scrigno di ricordi e passioni condivise con un nonno un po’ eccentrico. Quel nonno pronto a poetare su una «talpa in una stanza che balla scalza fino all’alba (Alice danzava) e anche sulla «lepre che mesta rimesta la minestra e poi la rovescia dalla finestra». Un gesto di ribellione al rituale del cibo che sicuramente, ancora oggi, conquisterà molti riluttanti mini-lettori.