Recensioni / Il digiuno necessario. Una nota sul Digiunatore di Franz Kafka

"Negli ultimi decenni l’interesse per i digiunatori è molto diminuito. Mentre prima valeva la pena di allestire per proprio conto simili spettacoli, oggi questo è del tutto impossibile. Erano altri tempi."
Così, lapidariamente, inizia uno dei racconti più celebri e sovrainterpretati di Franz Kafka, Un digiunatore (o Un artista del digiuno – Ein Hungerkiinstler, in tedesco. La traduzione del titolo è già, in qualche modo, una scelta di campo, che orienta la proiezione allegorica del racconto, una sorta di scheletrica visione – non spiegazione – del darsi dell’arte, della scrittura. Il primo termine attiene al mondo delle professioni, ha il suffisso dei mestieri. Per quanto possa essere un ossimoro fare della fame – e dell’arte – un mestiere. La seconda, non a caso una perifrasi, accentua – e isola – la figura dell’artista, ne crea il ruolo e in qualche modo glielo impone). Ne facciamo oggetto di questa breve dissertazione un po’ perché è inevitabile che chiunque abbia a cuore la letteratura (e la lingua, e la lettura e – ma solo dopo – la scrittura) torni a Kafka con la ciclicità delle maree e con la pericolosa voluttà delle mosche sul miele; un po’ perché ce ne dà l’occasione la nuova traduzione curata da Raoul Precht, che l’accompagna con note, caute e innamorate, sull’autore e sul tempo, nonché sulla follia del digiuno, e del tradurre Kafka in sé.
Fu uno dei pochi scritti di Kafka a vedere la luce con l’approvazione dell’autore, benché pochi mesi dopo la morte. Uscì nel 1924 per l’editore Die Schmiede, piccola e imprenditorialmente fallimentare officina berlinese che sarebbe infatti fallita pochi anni dopo. Del libro omonimo facevano parte altri tre racconti (Primo dolore, Josefine la cantante, Una donnina), tutti focalizzati sul carattere maniacale, e totalizzante, dell’arte. Furono scritti tra il 1922 e il 1924 e Kafka ne corresse le bozze fino alla morte, agli inizi di giugno di quell’anno. Nel suo testamento di fuoco, affidato all’amico fortunatamente (per noi) fedifrago Max Brod, queste pagine, insieme a quelle dei pochissimi libri (mal)pubblicati in vita, erano le sole destinate alla permanenza, e non alle fiamme. Un digiunatore, in particolare, fu probabilmente scritto nel ’22, durante una pausa (impasse) nella stesura del Castello, che fine non ebbe mai. Sono gli ultimi armi, per Kafka, roso dalla tubercolosi e costretto a vagare per sanatori, fino all’insorgere di una laringite tubercolare che lo inchioderà a un progressivo silenzio e, appunto, digiuno. Non stupisce dunque che le ultime – probabilmente, disperate – riflessioni abbiano estremizzato le ossessioni, stilistiche e filosofiche, dell’autore: il silenzio, appunto; la possibilità di una scrittura che escludesse la vita; l’incompatibilità tra la scrittura stessa e il mondo delle relazioni sociali; l’incomprensione duratura, sofferta e reciproca tra l’artista e il contesto, il tempo.
Il filo narrativo del racconto è necessariamente esile. La prima parte è dedicata agli altri tempi del digiunatore. Al suo successo, al rapporto tormentato con il pubblico, e con il mal sopportato (ma ineludibile) intermediario tra la propria arte e quel successo e quel pubblico: l’impresario. Personaggio che, strutturalmente, non comprende l’arte ed è a sua volta incomprensibile dall’arte. Ma, la mancata compresenza dei due elementi non permette all’arte di essere esibita, di avere un tramite. Va da sé, questo è il punto focale di secoli di teorie,  battaglie ed elucubrazioni. E non si pretende certo di darne qui soluzione, se mai ci fosse. Basta sottolineare come Kafka riesca, con una semplicità abbacinante – e disarmante – a dire la contraddizione senza il minimo trucco o fronzolo fornendo, forse senza intenzione, un esempio perfetto di cosa, quest’arte, sia. A un certo punto, arbitrario, i tempi diventano tempo e il passato remoto indefinito diventa in qualche modo presente remoto implacabile (non a caso l’unico arredo nella gabbia del digiunatore è un orologio a pendolo, inutile e appunto implacabile). Il successo finisce, l’interesse del pubblico si sposta verso altre forme di spettacolo, il sodalizio con l’impresario ha fine. Il digiunatore viene scritturato da un grande circo, che lo sistema tra le attrazioni secondarie, vicino alle stalle degli animali. Il tempo, dopo l’apparente stasi, comincia a correre e, con lui, il silenzio. Il digiunatore viene letteralmente dimenticato e raggiunge quel solipsismo forse cercato, l’assolutizzazione dell’arte che coincide con la morte.

"Naturalmente lo scrittore in me morirà subito perché un siffatto personaggio non ha terreno, non ha consistenza, non è fatto neanche di polvere... Sarà un funerale singolare; lo scrittore, dunque, una cosa che non c’è, affida alla tomba il vecchio cadavere, il cadavere di sempre..."
Così in una lettera a Brod, del luglio ’22, coeva o non distante dalla stesura del nostro racconto. E singolarmente assonante. L’arte della consunzione e la consunzione come arte. Il nesso tra digiuno e scrittura si fa palese (e, peraltro, il rapporto con il cibo di Kafka fu alquanto tormentato). Se da una parte tale nesso ha una componente soggettiva, riguarda il consumarsi, anche fisico, dell’uomo nella scrittura, dall`altra, ed è la lezione forse più duratura, lo si vede "in oggetto" nella sostanza stessa della scrittura. Un tedesco scarnificato, apparentemente flebile ma ferreo, assolutamente essenziale, volutamente anche monotono. Il rigore fatto linguaggio. Quel rigore necessario, cogente, davanti all’abisso dell’uomo e della letteratura. Da qui le perduranti – e registrate da Precht – difficoltà nel tradurre Kafka. La resistenza che si deve opporre alla tentazione di "abbellire" Kafka, le sabbie mobili che Kafka pone davanti al traduttore, quella semplicità agghiacciante che si è tentati di correggere, con cui si è portati alla gara, soprattutto in una lingua come l’italiano. E invece no. La letteratura è digiuno, o non è. In tempi (questi tempi) di bulimia, di scrittura per accumulo e serie, in cui si cerca ogni pretesto attorno a cui costruire narrazioni, certo farebbe bene rileggere questa decina di pagine di racconto di nulla, e quindi di tutto. Un uomo che muore dopo aver passato la vita ad esibire la propria astinenza. E fin qui, forse, si sarebbe tentati di pensare al campo semantico della santità, giusto spogliato dei paramenti religiosi, con tutto quanto ne consegue. Invece l’inappetenza è una pura e semplice necessità:  
"Era infatti il solo a sapere quello che ignoravano anche gli iniziati, quanto fosse facile, cioè, digiunare. Era la cosa più facile del mondo. Non faceva niente per nasconderlo, ma nessuno gli credeva, nel migliore dei casi pensavano che fosse modesto, o, il più delle volte, avido di pubblicità, o perfino un impostore."
Ritrovare uno spazio di necessità (sempre sospetta, come si vede) nella letteratura (nell’arte, foss’anche nella vita) è forse davvero la lezione – ma non è questa la parola adatta – che tracima dalle sbarre della gabbia del digiunatore. Dolorosa, certo, e anche scomoda, per cui si è quasi costretti a chiedere perdono. Ma garante inequivocabile del discrimine tra ciò che è essenziale e cosa no. Fino alle estreme conseguenze.  
"Digiuni ancora?", gli domandò il guardiano. "Ma quando ti deciderai a smettere?". "Chiedo perdono a tutti", bisbigliò il digiunatore; solo il guardiano, che teneva l’orecchio accanto alle sbarre, lo sentì. "Ma certo", disse il guardiano, toccandosi le tempie con un dito per indicare agli inservienti lo stato in cui versava il digiunatore, "certo che ti perdoniamo". "Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno", proseguì il digiunatore. "E noi infatti lo ammiriamo", fece il guardiano, con una certa condiscendenza. "Invece non dovete ammirarlo", replicò il digiunatore. "E allora non lo ammireremo", rispose il guardiano, "ma spiegami perché non dovremmo farlo". "Perché io devo proprio digiunare", riprese il digiunatore, "non posso farne a meno". "Ma senti un po`", disse il custode, "e perché mai non potresti farne a meno?". "Perché", disse il digiunatore "non sono mai riuscito a trovare il cibo che mi piacesse. Se l’avessi trovato, credimi, avrei fatto meno storie e mi sarei abbuffato proprio come te e tutti gli altri".