Il culto del capitale, che comprende una nuova traduzione del testo di Benjamin Kapitalismus als Religion
e una quindicina di saggi dedicati a temi connessi, è il risultato di
un lavoro comune svolto nel Seminario permanente di Studi benjaminiani
(istituito dall’Associazione Walter Benjamin). Soprattutto la prima
parte del testo (che oltre ai contributi dei curatori vede quelli di
Massimiliano Tomba, Bruno Moroncini e Clemens-Carl Härle) è legata
all’analisi del frammento benjaminiano e alla ricostruzione dei contesti
storici e teorici nei quali esso si inserisce. Nella seconda parte del
lavoro sono presentati testi (di Paolo Napoli, Massimo De Carolis,
Roberto Ciccarelli e Alessandra Campo) che elaborano in maniera più
autonoma alcune delle tematiche suggerite nello scritto di Benjamin,
facendo emergere soprattutto la loro centralità per una comprensione
critica del mondo attuale. Infine, la terza parte del libro (con testi
di Luca Viglialoro, Sarah Scheinbenberger, Gabriele Guerra, Tamara
Tagliacozzo, Massimo Palma, Giuseppe Massara) è dedicata all’analisi di
incontri (reali o possibili) tra Benjamin e altri pensatori o poeti per
lo più novecenteschi (ad esempio: Sorel, Bataille, Eliot, Pasolini).
Alcune delle linee direttrici che segue Il culto del capitale erano state anticipate dal libro di Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo (Quodlibet
2001), senza che ciò diminuisca l’interesse di questo studio collettivo
ricco e approfondito. Nell’impossibilità di rendere conto in maniera
dettagliata dei diversi contributi, ci limiteremo a segnalare alcune
delle tematiche a nostro avviso più interessanti.
Innanzitutto, il confronto tra la prospettiva di Benjamin e quella di
Max Weber e di Carl Schmitt. Con il primo, da cui evidentemente
Kapitalismus und Religion trae (seppure in maniera critica) il suo
spunto centrale, Benjamin condivide l’idea che all’origine del potere
religioso dell’economia capitalistica non vi sia la teologia, ma la
pratica dell’ascetismo cristiano. Con il secondo, Benjamin ha in comune,
fra l’altro, la considerazione della colpa come nozione-limite del
diritto, in questo assimilabile al forza con la quale la legge si
impone. Per Benjamin la colpa (Schuld), esterna o liminare rispetto al
potere politico, è tuttavia interna, nella forma del debito (Schulden),
ad un potere economico che si presenta dunque come una modalità di
dominio distinta dal potere statuale, ma forse addirittura più violenta
(in quanto più sottilmente pervasiva) di quest’ultimo.
Uno dei punti più rilevanti è che il “portatore” della colpa, dunque
l’indebitato nel quale si incarna la forma generatrice dal capitalismo,
non è il vivente umano in generale, ma l’individuo vivente. Il potere
religioso del capitale non si applica all’uomo generico o alla massa
degli uomini, bensì a ogni singolo essere umano come tale. Il culto
colpevolizzante e indebitante del capitale è anche, inseparabilmente, un
culto individualizzante, il cui sintomo Benjamin identifica, con grande
raffinatezza psicologica, in quella “malattia dello spirito proprio
dell’epoca capitalistica” che sono le “preoccupazioni”. Queste ultime
sono sintomo dell’individualizzazione perché “sorgono dall’angoscia per
l’assenza di una via d’uscita che sia comunitaria e non
individuale-materiale” (p. 11). Se questo è vero, la via d’uscita (dalle
preoccupazioni e dal capitalismo) dovrà procedere – come spiega Gentili
– “in senso inverso rispetto all’individualizzazione, alla
frantumazione dell’inter-esse in interesse individuali”. In altre
parole, “Benjamin non sta sostenendo soltanto la condivisibilità del debito. Egli sostiene soprattutto che, in sé, la vita in-comune è priva di colpa” (p. 67).
Questa necessaria inversione di rotta, questa Umkehr, viene messa da
Benjamin in opposizione esplicita al potenziamento (Steigerung) che si
suppone caratteristico dell’oltreuomo nietzschiano. La via d’uscita dal
capitalismo non sta nel potenziamento dell’umano, ma, giusto
all’opposto, nella politica come “adempimento dell’umanità non
potenziata (ungesteigerten)” (p. 68). La nozione di Umkehr, come viene
suggerito da Härle nel suo testo, torna sotto la penna di Benjamin nel
saggio su Kafka, dove si afferma che essa consiste nella “direzione
dello studio che trasforma la vita in scrittura”, dove lo studio,
“poiché non si oggettiva in alcuna cosa né in alcun prodotto – commenta
Härle – si riassume nella semplice intensità del suo gesto” (p. 103).
Il nesso tra l’inversione di rotta rispetto all’individualizzazione e il
culto capitalistico che fa pesare sull’individuo il destino di una
colpa inespiabile, di un debito infinito, spiega forse l’accenno di
Benjamin al fatto che “la teoria freudiana appartiene al dominio
sacerdotale di questo culto” (p. 10). Il culto del capitale sorvola
discretamente questo punto, che sarebbe stato utile mettere in relazione
con la considerazione benjaminiana di una nozione di carattere opposta
all’idea di destino.
Varrebbe la pena approfondire l’idea che una via d’uscita dalla colpa
costitutiva del destino individuale non si trovi nell’immagine di un
rimosso come “capitale che grava di interessi l’inferno dell’inconscio”
(immagine che, semmai, ribadisce la costituzione di un’individualità
colpevole), non, dunque, nella psicanalisi, ma piuttosto in quella
“sublimità della commedia di carattere” che risiede nell’affermazione di
una certa “anonimità dell’uomo e della sua moralità, pur mentre
l’individuo si dispiega al massimo nell’unicità del suo tratto
caratteristico” (Destino e carattere).
Il culto del capitale mostra nella maniera più chiara sino a che punto,
per invertire la rotta del capitalismo attuale, le pratiche volte a
rimuovere il peso economico del debito non possano non affrontare il
problema dell’eliminazione del fardello antropologico della colpa.