Recensioni / Falso d'autore

Spesso i libri che leggiamo sono tradotti. Ma quanto sappiamo dei traduttori e del loro lavoro? Poco o niente, considerato che spesso non sono nemmeno citati nel volume che hanno curato. Eppure la traduzione è un elemento fondamentale, senza il quale il testo non arriverebbe al grande pubblico; anzi: la traduzione diventa parte integrante del libro, perché - checché se ne dica - non è un semplice atto meccanico ma un complesso lavoro creativo.

A rimarcarlo è Daniele Petruccioli, traduttore e insegnante di lingue, che in un simpatico pamphlet spezza una lancia a favore di questi oscuri operatori, sfruttati e misconosciuti.

La traduzione è fondamentale, e sapere chi la cura potrebbe giovare al lettore; la stessa legge sul diritto d’autore (la 633/41, per la precisione) impone non da ieri, ma da oltre settant’anni la presenza del nome del traduttore nel frontespizio (contrariamente a quanto si pensi comunemente, è quella - e non la copertina - la vera “etichetta” del libro). E invece il nome del traduttore, ancora oggi, è difficile da trovare per «una serie di concomitanze culturali e relazionali, di alta ideologia e bassa manovalanza»: meccanismi, abitudini, riflessi condizionati, spiegati dettagliatamente da Petruccioli, che influenzano l’ambiente letterario e culturale del nostro Paese. Uno di questi è quell’umanissimo - ma pericoloso - culto della personalità che, nel bene o nel male, ci porta a cercare in una singola persona, e non più di una, l’autore di un capolavoro o il capro espiatorio di un disastro editoriale.

«Vogliamo sapere di che lingua è fatto quello che leggiamo!» chiede Petruccioli, lettore appassionato prima ancora che traduttore: e invece, se è raro trovare a margine del libro il nome del traduttore, è tanto più difficile reperire qualsiasi nota su che cosa ci sia “dentro” il suo lavoro, sugli “ingredienti” della traduzione e sul pubblico cui si rivolge. Anche se sarebbe essenziale: la traduzione ha un peso notevole e la sua prospettiva condiziona - a volte compromette - l’originale.

«Quando compriamo una traduzione, infatti, è inutile sperare di avere in mano l’originale: non è così. Abbiamo in mano un’altra cosa», spiega Petruccioli: la traduzione non è mai «una trasposizione di codice neutra», ma il frutto di un’interpretazione, più o meno consapevole, di chi la realizza. Tradurre, insomma, è “eseguire una musica”, e l’esecuzione sarà sempre “bagnata anche dell’io dell’interprete”. A nulla vale la ricerca della “traduzione definitiva”, esemplare, che non può esistere e che anzi ci priva della gioia di una molteplicità di colori e sapori, “l’immensa ricchezza della pluralità delle traduzioni”.

L’interpretazione è un lavoro creativo (“ad alta specializzazione”, a scanso di equivoci) ed è fatta di conoscenza e intuizioni, di talento e sfumature; bisogna riuscire a rendere il senso e la lettera, la sintassi e il ritmo, in un continuo equilibrio tra “invenzione” e “comprensibilità”, senza lasciarsi andare a soluzioni troppo ardite, né a normalizzazioni. Inevitabile che qualcosa resti indietro, e proprio per questo, suggerisce Petruccioli, la molteplicità di traduzioni può aiutare ad apprezzare un’opera che altrimenti apprezzeremmo solo in parte.

Inutile dunque inseguire una finta neutralità, uno spirito mimetico, la perfezione formale: dato che non possono esistere è meglio chiarire subito, a se stessi e ai lettori, quali siano le premesse e gli intenti di una traduzione. E proprio perché inevitabilmente «ogni traduzione trascura qualcosa», non è importante mirare all’esaustività quanto alla coerenza dell’interpretazione.

Di fronte all’arringa di Petruccioli viene da pensare che questa operazione di coerenza e trasparenza potrebbe iniziare dalle versioni della Bibbia, che quasi mai citano i traduttori e i revisori. E, da parte del lettore appassionato, potrebbe tradursi nella ricerca di diverse versioni, per trovare nel confronto una più ampia gamma di sapori e una migliore comprensione dell’originale.