A pranzo con l'architetto Italo Rota: «Vorrei fare l'eremita urbano. Il mondo è già troppo costruito»
Di notte, «quando è chiuso e tuttavia aperto», il Museo del Novecento arreda la piazza del Duomo di Milano più che di giorno. La luce di Fontana, che in sé non è bellissima, pare sia stata sempre lì, come le guglie, come la Madonnina.
«Ho messo in cima all’Arengario quella lampada al neon sempre accesa per stimolare il ricordo», spiega Italo Rota. «Provi un attimo a pensare a cosa c’era in quella piazza sino alla fine degli Anni 90». È vero, c’erano le luci al neon delle pubblicità che ricoprivano il palazzone di fronte al Duomo: Cimano, Brill, Matta. «Dunque, la luce di Fontana non arreda la piazza, ma la psiche». Secondo Italo Rota, «non bisogna essere architetti per fare un pezzo di città. Ne siamo tutti coautori. In fondo lo scopo dell’architetto è proprio quello di rivelare lo spazio della mente umana». Nostalgia? «No. Territorio di cose disseppellite, stanze della mente, arte. Guardi che il centro delle città è sempre più un luogo d’arte. A Milano anche il viale della stazione lo è».
E le auto? «Parlando sempre di Milano: centomila persone ci hanno rinunciato. È una comunità. Così si produce meno inquinamento, e gli uomini diventano sempre più paesaggio urbano: vestiti, colori, trame. La moda è la forma della città». Merito di Pisapia e della sua Area C? «È un cambio di tempi. Pisapia è una brava persona di passaggio, la guida alla transizione tra vecchia e nuova Milano». Per l’Expo curerà la mostra sul cibo: «In casa cucino io». Anche lei aspetta l’Expo come il nuovo Natale? «Non solo l’Expo avvicina Milano al mondo, ma già disegna una nuova città, l’asse urbano Milano-Torino-Venezia».
Durante l’Expo, Rota curerà il padiglione del Kuwait e la mostra su cibo e arte alla Triennale... «Mio padre era un cuoco internazionale, lavorava sulle navi. E in casa cucino io».
Bruno Zevi diceva: «La simmetria è fascista»; Italo Rota è asimmetrico anche nell’abbigliamento, nelle abitudini, nell’arredamento del famoso loft che abita con la moglie, Margherita Palli, scenografa di Ronconi, tra oggetti «da toccare con gli occhi e guardare con le mani». È l’architetto che rimescola gli oggetti, cambia posizione alle cose: «Il mondo è già troppo costruito. E dei palazzi moderni la sola cosa che mi interessa è come uscirne».
E così il Museo di Reggio Emilia, un boom di visitatori edi polemiche, è «uno sportello delle idee», il museo delle meraviglie: la Tazza d’oro dell’età del bronzo, la Venere di Chiazza, Melotti e Parmiggiani, ma anche la Lettera 22 che fu inventata da un reggino sino ai Mac di Steve Jobs. E, ancora, la camicia rossa di Garibaldi e quella di Toro Seduto, una testa del Canova e un’altra africana..
«A volte gli oggetti non si mostrano, vengono fuori come marmotte dalle tane. E bisogna chiedersi cosa pensano gli oggetti dei loro proprietari».
Anche Rota è un oggetto di Rota: lane tibetane, pantaloni a righe, scarpe di plastica colorate. «Bisogna usare il proprio corpo come primo territorio dell’architettura». Forse è per questo che, quando cammina, avanza per linee curve, come la Mediateca tutta storta che ha costruito a Perugia («In natura non esistono linee dritte»).
È firmato Rota anche l’eccesso esibito dello stilista Cavalli. Gli ha costruito la casa, che è tutta scala, ingabbiata in un pizzo di metallo. E poi le boutique e i "club Cavalli" sparsi nel mondo, da Miami a Dubai: «Non c’è bellezza senza qualche goccia di cattivo gusto. Anche la genialità di Prada si gioca su questo delicato equilibrio».
Si sente milanese? «Qui ci sono le mie cose». Rota è nato sul lago d’Orta e racconta di una nonna satanasso e soprattutto d’uno zio: «Fuggito dal campo di concentramento, non voleva più lavorare. E ritagliava le foto: i Kennedy, la Bardot, gli Sputnik, l’arrivo sulla Luna... Mi ha insegnato ad amare le immagini, a capire l’importanza dei simboli, dei riti senza i quali non si costruisce perché l’atto dell’edificare è innaturale».
Lui è l’unico architetto italiano che edifica templi in India. «Una sera, all’aeroporto di Mumbai, un signore mi consegnò una busta gialla dicendomi: "Se le può interessare, la apra quando arriverà a Milano". E così feci. Nella lettera c’era scritto: "Vuole costruire un tempio?". Ed era già cerimonia, rito, che poi divenne scelta del luogo, inseminazione, e i vasi di senape, la creazione dei 64 quadrati, l’orientamento del primo mattone...».
Lei è credente? «No. Ma ero in piena sintonia con quelle divinità e con i loro riti di fondazione, ma lo sono pure con Romolo e Remo e con gli Etruschi». A Roma, però, contro la chiesa che realizzò a Tor Vergata, intervenne addirittura papa Ratzinger in persona: «Non gli piacquero la grande croce rossa, le sedie di plastica».
Mangiamo pollo al Brutto Anatroccolo («Una trattoria che mi piace perché è sopravvissuta agli Anni 70»), ma forse è solo un’altra installazione di Rota, a due passi dalla Naba, l’università privata di cui è direttore scientifico. Rota parla a bassa voce e dunque fatico a sentirlo, qualche volta anche a capirlo: «Lo spazio interno non ha più bisogno di un esterno»; «L’unico oggetto da cui non mi separerei mai è il mio corpo, tutto il resto va e viene»; «C’è stato un tempo in cui mi sono sentito molto architetto e un altro in cui mi sono sentito molto collezionista, ora mi piacerebbe accamparmi in una grotta tibetana da eremita urbano, un posto dove parlare agli oggetti non sia un problema e dove spostarsi significhi fare una passeggiata fitta nel bosco».
Mentre mi racconta di quando ha cominciato con Gregotti («Di cui oggi non mi piace nulla») e della cattiveria umana di Albini («Un grandissimo maestro»), del Museo d’Orsay con Gae Aulenti e delle scenografie a Parigi, insomma, mentre mi illustra il suo ricchissimo catalogo di archistar eccentrico, mi accorgo che è un brevilineo come tutti gli italiani di genio. Ma atipico, non ipercinetico come vuole il modello Longanesi o Fanfani, ma al contrario lento: non corre, caracolla, e gira intorno agli argomenti senza un ordine apparente: «A Parigi, a un amico libanese, in rue de Varenne ho realizzato una casa di tre piani senza finestre».
Ecco, ora so perché il suo libro-manifesto, Cosmologia portatile (Quodlibet), di cui mi sono piaciuti molto i disegni, mi ha inquietato. Perché sono affezionato agli uomini e alle case che abitano, mentre lui da due ore mi sta spiegando che «la fine dell’uomo è il fondamento di qualsiasi progetto».