Recensioni / Guardare le formiche

Divagazioni semiserie su Luigi Malerba e i suoi Consigli inutili, Quodlibet, 2014.

Un consiglio se non è inutile non è buono. Non è un paradosso, o, almeno, non lo è quando si parla di letteratura e di tutto ciò che vi è correlato, filosofia, ragione, follia, forse perfino la vita. Un consiglio è buono se ti conduce a riderne, per poi, un istante dopo, ripensarci sopra, con un riso modificato, quasi geneticamente, concludendo che forse, tutto sommato, non è vero, certo, ma potrebbe anche essere vero, anzi, forse è vero proprio perché non lo è, perché non dovrebbe essere così. Su quel terreno fertile e friabile, quella terra vulcanica e pericolosa che sa di zolfo e di humus, di secoli antichi ma anche dell’urgenza del presente, si è sempre mosso Luigi Malerba. Su quel versante vulcanico costantemente sospeso tra il rischio della deflagrazione e il gusto del ragionarci sopra, magari quando si vedono già lapilli rosso fuoco. Malerba si muove tra gli ossimori, danza con studiata lentezza tra pareti di diversa natura che fanno da specchio le une alle altre creando sempre un’immagine altra, una prospettiva aliena, un punto di vista ulteriore. L’ossimoro per eccellenza è quello celato nell’intento del consiglio: ci avvisa del rischio, dell’assurdo, sapendo di non essere ascoltato, essendo perfettamente a conoscenza dell’inutilità del messaggio. Il vulcano esploderà, anzi, è già esploso e i più non se ne sono neppure accorti. Ma allora perché dispensare la parola, l’esercizio vitale del comunicare? Per quei pochi che ascolteranno, per consolarci, per ridere insieme dei vivi e dei morti, dei sordi e di quelli dotati di udito? Forse perché il consiglio deve essere dato a prescindere, fa parte del gioco, anzi, è il gioco, senza il gioco della parola, crudele ed essenziale, non esisterebbe la terra, il vulcano, il pomodoro e la vite, l’assurdo e il sublime.

Malerba è un prestidigitatore. Uno che avrebbe potuto mettersi a un tavolo e spennare tranquillamente tutti i polli. Avrebbe potuto mostrare agli occhi degli altri solo quello che gli faceva comodo, mani rapide, ma anche uno sguardo serio e monotono, tutto sommato rassicurante. Avrebbe ottenuto un’attenzione ammirata ma serena. E invece no. Ha voluto mostrare il trucco, la finzione che è insita nel meccanismo stesso, nell’utilizzo della carta come codice, oggetto simbolico. Ci ha mostrato che ogni seme in realtà contiene altri segni, solo in apparenza invisibili. Ogni carta ha due facce, e, dal raffronto di esse, deriva una figura differente, o un numero che varia a seconda dei contesti e delle situazioni. Ecco perché, descrivendo episodi apparentemente banali o comunque “normali”, intrisi di quella ordinaria follia a cui siamo assuefatti, ci consiglia di diffidare, delle luci del locale, di chi ci siede a fianco o sopra, e, soprattutto di noi stessi.

L’uomo è l’oggetto dello studio, anche quando l’attenzione si concentra “sugli alberi e sui suoni da essi prodotti”. L’uomo è l’eterno interrogativo, senza risposta o con innumerevoli risposte. Lo sguardo è diretto, crudo, mai connivente. Eppure, alla fine, se si ritiene qualcuno degno di ricevere un proprio consiglio, forse lo si considera ancora salvabile, oppure, semplicemente, si vuole ragionare sul perché della sua traiettoria, quella specie di “inchino schettiniano” che sarebbe stato bello poter vedere commentato da Malerba, lui che subiva il fascino senza tempo dell’anomotecnicon, l’esperto dei venti.

In fondo Malerba stesso ha condotto in ogni suo scritto uno studio su quella materia immateriale eppure imprescindibile che è la parola. Ne ha colto la natura essenziale, quel suo fare la differenza tra la fluidità dell’acqua e il rischio letale dello scoglio, tra comunicazione e rumore, comprensione e fallimento del dialogo. Ha sempre scelto rotte difficili, volutamente. Si è sempre mosso lungo direttrici che richiedono mappe nautiche molto dettagliate. Ma non ha mai lasciato a terra nessuno. Come hanno osservato più volte vari critici, tra cui Umberto Eco, l’utilizzo del double coding, pone in gioco la possibilità di una doppia lettura. Malerba “non invita tutti i lettori a uno stesso festino, […] li seleziona, e predilige i lettori intertestualmente avveduti, salvo che non esclude i meno provveduti. Il lettore ingenuo, se per caso l´autore mette in scena un turista ingenuo che, sbarcando al Charles De Gaulle, dice Parigi a noi due!, non individua il richiamo balzacchiano, e tuttavia può appassionarsi ugualmente alla spavalderia di quella figura comica. Il lettore informato “becca” invece il riferimento, e assapora la citazione che in quel caso produce un effetto di abbassamento”.

Nessuno scrittore degno di tale nome sceglie di lasciare immobili sul molo con la valigia in mano tre quarti dei suoi potenziali passeggeri. Si tratta solo di immaginare e creare preventivamente percorsi differenziati, oggi le agenzie parlerebbero di “itinerari personalizzati”. L’importante è che tutti i passeggeri, di qualsiasi genere, qualunque sia la cabina in cui si vanno a collocare, sappiano bene prima di salire a bordo che il viaggio c’è ma in realtà non c’è, o forse che non c’è ma in verità è reale. Se solo potessimo stabilire cos’è la realtà. Si tratta di rendere chiaro, tramite tutte le complicazioni possibili e immaginabili, tramite gli arabeschi di tragitti circolari e panoramici, che è tutta una menzogna, una menzogna geniale, per dirla ancora con Eco, ma sempre e soltanto una finzione. Pirandello riflettendo su questa consapevolezza si sarebbe toccato la testa dolente e avrebbe chiuso mezzo occhio con un profondissimo tic. Malerba sulla medesima presa d’atto ci fa toccare la testa surriscaldata mentre ci osserva fumando la pipa e scrutando la nostra sorpresa per tutto ciò che abbiamo compreso e tutto ciò che crediamo di avere compreso. Ghigna, e ridiamo anche noi, con un riso amaro ma sapido.

Un resoconto inattendibile, una verità che sfocia nella menzogna, una barzelletta senza finale o con un finale volutamente anticipato o deliberatamente spiazzante. Oppure, appunto, un consiglio inutile. Ma, in quest’ottica, se il resoconto rende conto di altri numeri e altri segni, se della verità si svela la natura ambigua e bifronte, allora, beh, come non detto: il consiglio non è inutile un bel niente! Diventa utilissimo, il consiglio. Per evitare di ascoltare nel nostro sdrucciolevole presente accorati consigli dall’arringatore di turno che vorrebbe darci a bere che di consiglio valido ce n’è uno solo, il suo. Per tenerci alla larga da quel tipo che vichianamente riappare sulla scena italiana, quello che ne I Neologissimi, pubblicati di recente dai Quaderni dell’Oplepo, Malerba definisce con un’acrobazia linguistica aspra, divertita e tagliente, “ammalùcco”, “andreòtto” o, all’occorrenza, “bugiàdro” e “personàccio”.

Ecco, forse questo stravolgimento della parola, mai causale, mai fine a se stesso, è di per se stesso la chiave, o forse una delle chiavi possibili. O magari contiene l’unico consiglio vero, quello di non tenere conto delle cose così come sono, o meglio di tenerne conto ma con un salvifico mélange di serietà e distacco, attenzione e disincanto. Come un bambino che osserva il giocattolo con uno sguardo tanto intenso da lasciar presagire che il gesto successivo, ineluttabile, necessario, sarà quello dello smontaggio. Ne nasce qualcosa di nuovo, un occhio diverso, un nuovo modo di osservare e raccontare. Con queste rinnovate pupille si impara di volta in volta, grazie a Malerba, l’arte di indagare su “L’utilità del treno”, oppure sul modo più o meno congruo di usare “La pipa”, oggetto caro all’autore, non solo nella sua funzione simbolica. Ma soprattutto, accanto alle “Biografie immaginarie”, in cui ci beffa dell’esattezza dei dati e dei moduli, delle anagrafi e dei resoconti di vite, morte e presunti miracoli, si giunge al sacro atto di “Guardare le formiche”. La ricchezza della costante ambivalenza di senso e contenuto propria di Malerba ci fa intuire, mentre ancora una volta sorridiamo, che in effetti in quell’attività apparentante vana c’è tutto il senso possibile. Quell’animaletto nero e scuro come un segno d’inchiostro porta tenacemente sulle spalle un carico di un peso identico al suo: il senso del suo agire e la sua assurdità, la sua minuscola e tenace verità e il fardello della sua inutilità.