Recensioni / Topo, topo senza scopo

 Nel centenario della nascita, torna Toti Scialoja, con la riproposizione di un suo quadernetto di disegni e nonsense: gli animali sono al centro delle poesie. E una biografia lo colloca al posto giusto nel Novecento

 

«Sha-lóy-ah»: così nell’estate del 1955 Milton Gendel sillabava il cognome di Toti Scialoja per insegnare agli americani come pronunciarlo, e lo tirava per la coda in un accento di stupore. A noi è toccato prolungare quella «ah!» fino a martedì 16 scorso, quando sono caduti i cent’anni dalla nascita di Scialoja e il novantaseiesimo compleanno di Gendel. Il quale Gendel, residente a Roma fin dal ’49, allorché pubblicava su «Artnews» quel ritratto di Scialoja era impegnato ormai da anni, con le sue fotografie, a far conoscere l’Italia agli italiani: dalla Sicilia al Salento alla stessa Roma, nuova Ville Lumière del mezzosecolo. Questa volta li introduceva nello studio del suo amico Toti, che proprio nella capitale, da un edificio di epoca umbertina, dominava Villa Medici; era esposto a sudovest, sicché buona parte del giorno bisognava tenere calate le tende, chiusi gli scuri.

Nel ’55 Scialoja usava dipingere di pomeriggio; il suo umore circadiano verso la luce naturale era più importante delle etichette di scuola. Proprio la data del primo di gennaio 1955 battezzava l’opera in cui aveva abbandonato per la prima volta il pennello, mettendosi a dipingere con stracci intrisi nel colore, impugnati a batuffolo. Scialoja era a una svolta: che avrebbe avuto un rilancio oltreoceano quando di lì a poche stagioni giunse a New York con lettere di presentazione – firmate da Gendel – per i critici e gli artisti americani. Lì a Roma però, e in quel frangente, a interessarsi di quel pittore tanto isolato dai colleghi (per propria scelta) furono gli spettatori privilegiati di sempre: gli scrittori. Il 10 gennaio 1955 Pasolini proponeva al direttore della rivista «Galleria», che era Sciascia, di dedicare a Scialoja uno speciale cui avrebbero contribuito, oltre lui stesso, Bassani e Bertolucci. Che era come dire il ramo letterario della scuola di Roberto Longhi al gran completo. Quella convergenza d’interesse su un pittore che proprio in quell’istante voltava le spalle all’arte figurativa non si realizzò. Ma Bertolucci si espresse comunque nel ’57, descrivendo Scialoja come un uomo che aveva errato: «e lasciate al verbo la sua ambiguità. Uomo di cultura egli ha scritto e dipinto molto in vent’anni, muovendosi in ogni direzione, provando e riprovando». Ora lo si vedeva «felice di entrare nella tela come in una giornata umana con infinite possibilità di incontri».

Molte annate e molte date, fin qui. Perché, se nel caso di Scialoja correnti e tendenze non soccorrono, la cronologia viceversa è essenziale. Lo testimonia la precisione con cui calligrafò – con le biro quadricolori che prendevano proprio allora a circolare: blu, rosso, nero, verde – il colophon del quadernetto familiare che intitolò Tre per un topo: «Sessanta poesie con animali, cominciate a scrivere nel 1961 per James Demby, che si è fatto grande – ora raccolte e illustrate per Barbara e Alice Drudi, che sono ancora piccole, nell’agosto 1969 a Roma, ispirato dalla sua Gabriella». I nomi dei suoi tre nipotini, di sua moglie, e basta. Il solo commento possibile sarà leggerne una: «L’uccello nero / salta leggiero, / si chiama merlo / senza saperlo». Leggiero, con grafia anticata; perché «Scialoja riesce a essere nello stesso tempo uno scrittore “barbaro”, dotato d’una grande capacità di donare evidentia alle immagini delle sue parole, e un classicista con un fortissimo senso della tradizione e delle convenzioni di genere». Il commento è di Eloisa Morra, la giovane studiosa autrice del ritratto critico Un allegro fischiettare nelle tenebre: che sarà il migliore accompagnamento per questi nonsense con animali e per chiunque desideri inseguire la biografia intellettuale di questo pittore-scrittore nel centenario della sua nascita. Ma andiamo con ordine, e guardiamo un’altra poesia: «Ieri al crepuscolo, tra il lusco e il brusco, / vidi un minuscolo topino etrusco».

Da piccolo Toti veniva chiamato «topino americano»: un segno del destino, e il topo fu il re degli animali per l’illustre dinastia degli Scialoja. Il quadernetto del ’69 conteneva per l’appunto, a fronte d’una terna di nipoti, tre poesie dedicate a un topo ma ben undici disegni con topi: dodici con la copertina, tredici con il dipo – lunghi arti posteriori da saltatore, lunga coda a fiocco, bianconera – che sbircia il lettore dall’ultima pagina: «Il libro è finito, al posto / dell’indice c’è un dipo». Quando finì quel libro Scialoja aveva quasi cinquantacinque anni: quali erranze lo avevano portato fin laggiù?

«A tentoni, ma con infallibile istinto, Toti afferra il suo destino» scrive Morra in una sintesi che corrisponde alla seguente dichiarazione d’autore: «il nonsense mette la parola alla prova del nulla, a confronto con il suo mentito significato». Per tutta la sua vita, fino ai tardi esperimenti con quelli che volle chiamare «esametri», Scialoja praticò la poesia come il modo per restituire alla parola pulsazione, dopo averle tolto peso. Può darsi che si possa dire qualcosa di analogo per la sua pittura, ma per accertarsene è opportuno ricorrere al Fischiettare di Morra: più che una «biografia disorientata», come l’autrice l’ha definita sull’esempio di Barthes, è una biografia snodata: sciolta ed elegante nel procedere, esatta nel suo inscriversi nello spazio-tempo, limpida e cordiale nel tono; un libro dove la descrizione decolla sempre in interpretazione, animato dallo stesso sentimento che Scialoja diceva di provare verso i suoni: «una grande, una smaniosa simpatia per le parole, quasi che le parole fossero spiragli di luce». Gli esordi di Scialoja come narratore e come critico si trovano così retrodatati di più anni, tra il ’35 e il ’37, mentre emerge l’importanza di letture eclettiche, da Trilussa a Stevenson. Negli anni della sua prima giovinezza sotto il fascismo, Scialoja allargava le sbarre di una gabbia politica, morale, perfino acustica. E il magistrale confronto Mino Maccari vs. Toti Scialoja assume il valore di uno spartiacque – stilistico, civile, antropologico – tra due idee dell’Italia e del modo di esprimerla: due idee che nel 1941 si trovarono a coabitare su una stessa pagina di una stessa rivista, «Il Selvaggio» fondato da Maccari.

Ma è tempo ormai di fare nuovamente gli auguri, saltando per l’ultima volta a venti, anzi a trent’anni più tardi: non al 1961 quando Scialoja cominciò Tre per un topo, ma al 1971 quando su un foglio inedito disegnò per l’ennesima volta il suo animale-totem con questa didascalia: «Il topo è del 1971 ma ha sempre in cuore l’amico Milton». Usciva proprio quell’anno, da Bompiani, la sua prima raccolta pubblica, Amato topino caro, e la storia poteva ricominciare: «Topo, topo, / senza scopo, / dopo te cosa vien dopo?».