Linee luminose che si intersecano per articolare un fondale geometrico
di natura squisitamente astratta, fiabeschi intrecci d’aria e ricordi
d’un canto lontano, assemblaggi materici, abbracci tra parole, cose e
disegni. E poi, via via, frammenti di corpi femminili, piccole donne,
divertenti e piccanti coccodrilli in smoking, abbecedari, installazioni
(La vita in fasce del 2009-2012 si presenta come un’elegia rilkiana),
sciarpe, affreschi – straordinario quello realizzato nel 1994 per il
MACAM, il Museo d’Arte Contemporanea all’aperto di Maglione.
Il mondo magico proposto da Tiziana Fusari (Macerata, 1951), un mondo
interrotto bruscamente e inaspettatamente nel 2012, si esprime, da
sempre, sin dai suoi primi esercizi di stile – dai vari Lampi che
accompagnano la sua ricerca lungo l’arco di un quinquennio (1985-1989)
–, attraverso storie semplici, oggetti apparentemente banali, album,
quaderni, taccuini e fogli sparsi che conservano le tracce, lo spessore
di una memoria che dimentica.
«La mia ricerca muove fin dall’inizio dagli oggetti, dalla banalità e
serialità del quotidiano, dal box in cui venivamo parcheggiati infanti e
dal quale cominciamo da subito a cercare i segni di espressione di noi,
di comunicazione e di condivisione del mondo», suggerisce l’artista in
uno dei suoi tanti diari, in una definizione di poetica che invita lo
spettatore a percorrere (con l’ausilio dell’arte) il proprio tempo, a
regredire fino al buio dell’infanzia e dell’intimità.
Terre minerali, biglietti, scontrini, francobolli, fotografie, frammenti
di vissuto quotidiano. E poi carta-cipolla, stoffa, gesso, creta,
ferro, vetro, inchiostro di china, pane, plastica, cera. I materiali
scelti da Fusari raccontano di un «fare che pretende l’attenzione ed il
silenzio della riflessione», di una piattaforma estetica che coniuga il
mentale al manuale, il pensiero ad una pratica che pone l’accento sul
fuggitivo, sul contingente, sul transitorio. «Precarietà è l’elemento
precipuo del mio lavoro, connotativo», puntualizza Fusari nel 1998.
«Precipuo è il materiale, il supporto, la carta da modelli di sartoria
su cui stendo polveri, acqua e colla. Precari», ancora, «i soggetti, per
lo più corpi fissati in un passaggio di movimento su fondo monocromo.
Nessuna ricchezza di segno, nessuna complessità tonale. Povertà nei
colori, tutt’al più primari». Nude, crude, erotiche, spigolose e
contemporaneamente morbide, soffici e leggere, le sue opere sono
espressione di sensazioni autobiografiche (Corgnati), a volte, che
disarmano il pubblico e lo invita all’interno di un paesaggio illusorio
che ferisce l’illusione stessa.
Il suo è un percorso segreto, un viaggio che, se da una parte eredita la
lezione di Matisse e il tratto nervoso di Schiele o di Kokoschka,
dall’altra si nutre di alcuni espedienti – cari a Louise Bourgeois e a
Maria Lai – che rivisitano l’infanzia («era già tutto lì nell’infanzia»)
senza ricadere nella sdolcinatezza di una infanzia pura o intatta: al
contrario, presa per la coda e investita di materiali simbolici, di
riflessioni legate alla diversità, alla stramberia, alla bizzarria, alla
difformità, alla spregiudicatezza (di rossetti, tacchi a spillo o
sigarette), all’innocenza e a quello che innocenza non è.
Dalle varie straordinarie declinazioni delle Vele (1990-2010) al
progetto Intorno al bianco (1993-2004), ad un colore assoluto che
rappresenta tutto quello che si può dire quando alle parole si toglie la
voce, dalle Figurine (1996-1998) alle Zolle e al Pane quotidiano
(1979-2009) – come non pensare, appunto, alla purezza elegiaca di Maria
Lai? –, dagli Abbecedari (1999-2006), ai vari Quaderni ed Ex libris
(1999-2003), alla Comédie humaine (2003-2010), alla Calligrafia del
Corpo (2004-2007), alle Sciarpe e al Lessico Famigliare (2004-2012),
alle Carte d’identità (2007) al progetto Pruebas (2007-2011), i cicli di
Fusari ricreano atmosfere vivaci (a tratti raffinatamente
popsurrealiste), raccontate a volte con un tratto malizioso e infantile,
altre con un segno caotico che mostra le impronte stesse del pensiero.
Rewind, un recente libro a lei dedicato – un libro curato da Mauro
Mattia e pubblicato postumo nelle edizioni Quodlibet – racconta, oggi,
meticolosamente, tutto il suo percorso, la sua avventura poetica, i suoi
stratagemmi costruttivi e riflessivi, il suo navigare nei mari della
memoria per rinvenire, a poco a poco, un canovaccio, una residuo di
silenzio da ascoltare, con pazienza e a lungo.