Il libro di Matteo Marchesini provoca. La recensione potrebbe
concludersi in questo modo, perché chi scrive è fortemente convinta che
un critico (per di più militante) ha il sacro compito di docere, movere,
delectare. Alle funzioni del discorso enunciate da Quintiliano
bisognerebbe aggiungere, forse, un altro verbo: interrogare. E
Marchesini soddisferebbe anche il quarto criterio.
Il giovane scrittore non si pone in cattedra, non si ammanta di auree
fittizie e false, non prende la bacchetta, non comincia a dispensare
verità critiche come se solo dalla sua bocca potesse uscire oro colato,
non polemizza in maniera sterile, non distrugge nulla. Semmai
costruisce. E costruisce interrogando e interrogandosi. Costruisce
rischiando e sfidando.
Un’opera a puntate, un mosaico eterogeno per genesi, per destinazione,
per occasione, sottoposto a un labor limae che ha la pretesa di sfidare
l’effimero e di far restare nel tempo, consci che non si può snaturare
la radice.
Marchesini avrebbe potuto rimescolare i materiali e creare un’opera più
fluida, meno spezzettata: e invece ha abbracciato il frammento.
Operazione ardua, perché il frammento non può dire tutto, non può
pretendere l’esaustività. Ma può provocare: evocando. Non si evocano
solo sentimenti, ma anche guizzi della mente. Non si evoca solo un
paesaggio, ma anche la Storia (quella con la S maiuscola). Non si evoca
solo qualcosa che non c’è più, ma che continua ad avere riflessi (e
riflussi) sul presente, ma anche una mole sterminata di uomini che hanno
prodotto scrittura. Non si evoca solo un modello, ma anche una fitta
rete di rimandi ineludibili, che, per la teoria dei vasi comunicanti,
avvicinano personalità e persone tra loro distanti nel tempo e nello
spazio.
Per questo il libro di Marchesini ha colto nel segno: perché ha avuto la
capacità di evocare il solo e anche il non solo, frammentando discorsi
ampi e ardui. Racchiudere personalità, persone, produzioni, ego,
creatività, come quelle di Pascoli, di Savinio, di Caproni, di Sereni…
in una manciata di pagine è mettersi sul crinale: da un lato il rischio
di apparire superficiale, di liquidare con sentenze lapidarie (tendenti a
volersi fare cliché etichettatori) fenomeni indagati in ogni singola
fibra; dall’altro l’essere in grado di generare curiosità e domande, di
non permettere l’appiattimento sul “tanto lo ha detto quel critico”, di
non glorificare o demonizzare aprioristicamente, e allo stesso tempo di
dare impulsi di accordo o di disaccordo.
A poco più di trent’anni, Matteo Marchesini ha forse lasciato un
profondo insegnamento che si tramanderà, e che sarà in grado di sfuggire
all’effimero: che la critica (militante) non può dire tutto, pur
conoscendo il tutto (che poi “il tutto” esiste davvero?), ma deve essere
in grado di scegliere, di filtrare e di fornire una prospettiva mobile,
che sappia adattarsi all’eracliteo pantha rei.
Il tutto scorre è, forse, il leitmotiv che scandisce i frammenti di
Marchesini (ovviamente a parere della scrivente): o meglio, la
consapevolezza che la critica può sopravvivere al tempo, ma che ne è
succube, e che deve sapersi adattare.
Non torri d’avorio, non osservatori privilegiati, non lezioni dalla
cattedra, non ruoli preconfezionati e portati avanti a tutti i costi,
non etichette posticce attaccate alla giacchetta come fiori
all’occhiello sfioriti, non diapositive di un tempo che fu: ma la realtà
mobile e fugace, magmatica e presente, irrequieta e irrisolta,
contraddittoria perché viva, ossimorica fino allo scontro, pacificata
non dall’ipse dixit, ma dal confronto.
Nella premessa Marchesini scrive: «Per anni, ho steso quasi un articolo
al giorno: ma anche se si trattava di un corsivo brevissimo, non sono
mai riuscito a spedirlo senza averlo prima rifinito in modo che potesse
resistere almeno un po’ al tempo» (p. 11).
Come si resiste al tempo? Interrogandolo: senza mai stancarsi di
chiedere il perché dei suoi moti. Sfidandolo: cercando di dare vita a
quello che in apparenza giace sotto una spessa coltre di polvere.
Accettandolo: saper cogliere ogni lieve e impercettibile sfumatura. Ma
soprattutto considerandolo: senza fare finta che il cristallo costruito
sia immortale e intoccabile.
Ma la vera chiave di volta è quella che soggiace a tutta l’opera di
Marchesini: la fertilità del confronto, e la consapevolezza che un uomo
non può tuffarsi nello scibile e arrivare a toccarne le sponde. Il porsi
domande è la vera rivoluzione di Da Pascoli a Busi: titolo già
provocatore, già (ir)risolutorio, di un’operazione ambiziosa,
perfettibile, ma riuscita.
Un libro che segna un punto di svolta, e che fa riflettere sulle
modalità con cui avvicinarsi alla letteratura, sulla funzione del
critico (pezzo da novanta dell’operazione di Marchesini è quella di
includere nella sua “mappa” i saggisti), sullo stato attuale della
cultura (degno di plauso il saggio su Saba). Un libro che non può non
essere considerato nella statura che gli compete: un mosaico eterogeneo,
vivace, intelligente e acuto; ma soprattutto un punto (dichiarato) di
non ritorno.
Il tutto levigato da una prosa mai troppo giornalistica, ma nemmeno
troppo specialistica; mai troppo divulgativa, ma nemmeno troppo
elitaria. Una prosa che evoca, che si impenna a tratti, senza mai cadere
nel barocchismo sterile; una prosa concreta, fatta da immagini che si
sovrappongono senza mai affollarsi. E soprattutto una prosa colta, che
sa perfettamente quello che dice, senza mai virare all’erudito.
Una sperimentazione riuscita, di contro alle (troppe) compilazioni irrisolte.