Recensioni / Rewind. Tiziana Fusari: un'artista sull'altalena della memoria

Due anni e mezzo. Leggere. Rileggere. Scavare. Decifrare calligrafia e pensieri. Questo ha fatto Mauro Mattia poco dopo la scomparsa di Tiziana Fusari, avvenuta all’improvviso nel 2012. Il risultato è un volume potente e delicato insieme, prezioso per scelte formali e sostanziali. Netto, senza sbavature, affilato e aperto, miccia pronta a innescare riflessioni multiformi, come il pensiero che ha animato la ricerca dell’artista nata a Macerata, casa e studio a L’Aquila e amante dei viaggi. REWIND, pubblicato dalla prestigiosa Quodlibet, si chiude con questa citazione d’artista: «Voglio confrontarmi solo con quello che è instabile come me, che deve avere poca vita. Lo strappo, l’inconsistenza mi sono più congeniali». Ed è qui, nella chiusura, che si può trovare il viatico per accostarsi al lavoro di Tiziana Fusari. Il suo inizio, da autodidatta negli anni Ottanta, è legato all’Astrattismo e all’Informale, con scomposizioni geometriche dello spazio in rette e compenetrazioni di sfumature e piani di colore. Alla fine dello stesso decennio avvia la serie delle Vele, che durerà per quasi tutta la sua vita. Amava l’uso della carta modello, Tiziana Fusari, che gessava, e sulla quale dipingeva un universo popolato di esseri umani, animali, oggetti, parole. Gli Abbecedari sono libricini, quasi scrigni-gioiello fatti di pagine gessate e dipinte, spesso con l’oro, in cui a ogni lettera è associata – in modo inatteso e a tratti misterioso – una parola. È cruciale, nel suo lavoro, l’uso della parola, che è conferma dell’esistenza delle cose, strategia con cui tentiamo di comprendere il mondo, sin da bambini. Bambini. Tutto è intimamente collegato e coerente nel lavoro di Fusari. Sì, l’infanzia è un’altra delle dimensioni più scandagliate e analizzate pressoché in ogni ciclo dei suoi lavori. «La ricerca parte sempre da lì, perché era già tutto lì nell’infanzia, i segni e i sogni, poi si passa il resto del tempo a scavarci dentro e vedere se si riesce a trovare la strada, se si recupera il bandolo della matassa che si è ingarbugliata, annodata, sfilacciata» scriveva nel 1999. Un’infanzia che spesso vagheggiamo come luogo protetto e spensierato ma che nella ricerca dell’artista è sì vertigine di possibilità e orizzonti ma anche luogo di turbamenti, impossibile da raggiungere perché inquinata dallo sguardo duro della vita adulta. Infanzia e memoria sono prepotenti protagoniste di uno dei suoi ultimi progetti, La vita in fasce, una narrazione fotografica in cui compare, in ogni scatto, una borsa realizzata dalla madre dell’artista a partire da una coperta di corredo di sua nonna. La borsa [...] è il fil rouge di un racconto senza storia, dove la storia è solo nella sua presenza, poiché in essa sono già tutte le storie, tutto un racconto di vite che attraversa qualsiasi ambientazione in cui la vorrò inserire», scriveva Fusari nel 2010.

Le tante figure femminili presenti nei suoi lavori sono quasi sempre prive di testa ma definite dettagliatamente nel corpo e negli accessori. La scelta di allontanarsi dal tradizionale canone del ritratto, scegliendo un’inquadratura così ravvicinata che esclude dal campo visivo il volto, obbedisce alla convinzione dell’artista che il corpo non sia capace di mentire, e possa invece esprimere molte più cose di un viso. L’universo femminile è un campo di indagine molto importante per Fusari: le sue sono donne dalla muscolatura forte eppure hanno protesi o uncini, sono trafitte o sospese, come i protagonisti della serie Comédie humaine, omaggiando Balzac nel tentativo di delineare i tratti di un universo in cui, nonostante il vivere in società, ciascun individuo è solo e precario. E allora non suona strano scoprire che Fusari amava il lavoro di artisti quali Francis Bacon o Louise Bourgeois, o la danza di Pina Bausch. Immagini quotidiane, quasi banali perché appartenenti al comune panorama visivo e che invece suonano dissonanti perché contengono dettagli inusuali: aghi, arpioni, coccodrilli, spilloni. Sono un invito a non limitarci alla superficie del già visto ma ad affinare lo sguardo, ad andare oltre, al di là dei nostri confini, delle convenzioni individuali e sociali, consapevolmente praticate ma più spesso inconsapevolmente assunte. La sua è una ricerca verticale, che scende in profondità, che ha un non so che di stratigrafico. «Arte come ricerca morale. Indagine continua di una nobiltà dell’esistenza, magari mettendone a nudo il grottesco l’osceno il ridicolo. Un setaccio, dunque, alla ricerca della pepita», scriveva in uno dei suoi Diari. È una ricerca pura, senza fronzoli o autocompiacimenti, condita da una straordinaria ironia che se sulle prime strappa un sorriso, poi graffia, scuote, morde. Stupisce nella monumentale produzione artistica di Tiziana Fusari – di cui il volume restituisce la massima parte del lavoro ma non la totalità – la coerenza che travalica i confini dei linguaggi espressivi, dei media utilizzati: pittura, tanta pittura, ma anche scultura, azioni, ricamo, timbri, disegno. E sarà prezioso potersi immergere in questo universo molteplice, sarcastico e tagliente, nella retrospettiva in programma per marzo 2015 alla Galleria Il Fondaco di Bra, dove nel 2010 Tiziana Fusari aveva realizzato la sua ultima mostra.