Recensioni / Ci vuole la testa vuota

A pranzo con Enzo Cucchi, uno degli artisti italiani più noti al mondo: «L’arte è soprattutto fatica»
L’arte contemporanea è un imbroglio? «Sì, se parli di mercanti, case d’asta, musei, collezionisti, banche, cordate di affaristi, curatori, manager, finti artisti che fanno i vetrinisti, giornalisti zerbini, scrittori…». E chi resta? «Gli artisti. I soli che capiscono l’arte». Dunque ci sono gli artisti e poi, come in Harry Potter, la massa dei Babbani senza poteri magici. «Tutti corrotti».
Non ti piace nessuno? «Arbasino. E prima c’era Testori». Eravate amici? «Molto di più: nemici». Ma com’è fatto un artista? «Da decenni, al mattino presto, mi metto a girare per Roma, sfioro le pareti, mi gratto contro i muri». Cosa cerchi? «Non ho un rapporto con l’universo». Dunque? «Non mi resta che fare l’artista. Infatti, alla fine, vado sempre dal coloraio. È un negozio bellissimo. Se vuoi ti ci porto».
E ci andiamo come Harry, nella polverosa Londra, va a comprare le Olivander, le bacchette magiche "di qualità superiore sin dal 382 a.C.”.
«L’arte è fa-ti-ca!», scandisce. E aggiunge: «Materiali, colori, lo spazio, la distanza, le forme, pensa alla fatica di Michelangelo…». Cucchi parla con le mani «perché anche il pensiero è un manu-fatto». Dice «fatica» e si tocca la testa. Dice «immagini da acchiappare» e infila un dito nel suo occhio prima di infilarlo nel mio. Così misuri la distanza?
«Bisogna fidarsi degli artisti». Anche di quelli come Cattelan? «Cattelan non dice di essere un artista. Ma è intelligente, coraggioso e simpatico».
Non è vero che Cucchi non risponde alle domande. Lo fa in forma malfidata, perché davvero «è sconnesso» come ha scritto il suo biografo Carlos D’Ercole in un bel libro, anch’esso sconnesso (Quodlibet).
Hai visto La grande bellezza? «Quella di Sorrento?». Quella di Sorrentino. «No».
Cucchi non è solo l’artista italiano contemporaneo più conosciuto (e forse più pagato) nel mondo. È anche il più amato dai letterati e dai critici, «e forse per questo», gli dico, «io non capisco quasi nulla delle parole che scrivono su di te». Per esempio (Raiuno): "Cucchi allude da un lato a un universo popolare, dall’altro all’inconscio". Me lo spieghi? «Non vuol dire nulla». Appunto. «Ma quelli sono fan. Sono come gli "intenditori" di vino. Capisci solo che gli piace il vino». Dunque la tua "narrazione polisemica", "il tuo percorso nomadico" e "la tua arte implicata, implicante e mai applicata" sono come "il retrogusto di violetta, erba di campo e pepe... del Sassicaia": parole sconnesse. «E ho citato», gli dico, «i critici importanti che amano le tue opere, da Bonito Oliva a Vittorio Sgarbi».
«Dicono bene di me, punto e basta. Invece gli imbroglioni siete voi che lavorate nei giornali». E attacca: «Ce n’è uno, al Corriere della Sera, che ha scritto: "Cucchi è un ex contrabbandiere che ora contrabbanda arte". Mi diede del contrabbandiere d’arte perché mi rifiutai di illustrare le sue poesie. Credeva, poverino, di essere un grande poeta». Da allora Cucchi disprezza i giornali. E per tutta l’intervista mi chiama a volte Mauri, Mori, o Mauro. Solo alla fine, quando (forse) diventiamo amici, mi chiama Francesco.
È figlio di contadini e ne va fiero. È vero che sei stato espulso dalla scuola? «Tirai un libro alla maestra. Ma non c’è nulla di cui vantarsi». Hai paura di passare per "maledetto"? «Be', c’era la fame nel dopoguerra. E io sono cresciuto nel porto di Ancona». Come i malviventi di De André? «Bisognava vivere». Dunque il contrabbando lo facevi davvero? «Tutto era contrabbando in quel tempo e in quel luogo: il sale, le sigarette, l’aria...».
Maestri d’arte? «Nessuno. Cominciai da un restauratore che ogni tanto mi permetteva di dipingere». Cosa? «Olio». È rimasto nulla? «Nulla». Come si chiamava il restauratore? «Non ricordo». E poi? «Una donna vide un mio quadro, e vinsi il premio Guttuso, una somma enorme: 60mila lire».
Quando hai capito che ce l’avevi fatta? «Mai». Tuo padre, prima di morire, ha visto il tuo successo? «Sì. Lui parlava per immagini. Brunella…». Chi? Cucchi non riesce a dire "la mia ex moglie": «La madre di mio figlio ne ha fatto una traduzione in inglese e poi in italiano». Spiegheresti pure a me, come spiegasti a lui, cos’è la Transavanguardia? Mi sbatte per due volte l’indice sul petto e agita le mani nell’aria perché «con le parole ci si smarrisce e con le mani ci si ritrova». Poi ridendo mi spiega così la Transavanguardia: «Achille è un amico, non un artista».
Gli racconto che ho fatto il gioco delle domande cretine e delle risposte intelligenti con Umberto Eco. «Proviamo».
Gli chiesi: «Qual è il tuo piatto preferito?!». «E la risposta?». I piselli ripieni. Ora Cucchi disegna con le mani nell’aria un bel pisello ripieno. «Ripieno di cosa?». «Non so», dico, «carne, pomodoro, mozzarella...».
«No, è gas rarefatto. Scrivi, per favore, che Umberto Eco non capisce nulla di arte ed è uno scandalo che gli permettano di scriverne così tanto». Più che disconnected, Cucchi è tangenziale. E infatti sfiora il cerchio dell’ironia: «I libri di Umberto Eco sono libri che non riescono a diventare libri». Sembra il Marcovaldo calviniano: «Ci vuole la testa vuota per creare. Con la testa piena fai l’Umberto Eco, ma non l’artista; fai il critico, ma non il pittore».
Tu non hai Internet, vero? «Per carità». Sai che è pieno di cose che ti riguardano? «Non mi importa». E però il figlio Alessandro, allegro sorvegliante povero del convento ricco, vede tutto e risponde per lui: «Ieri sera hanno mandato al babbo delle domande: "È più importante l’aria o il fuoco nella sua arte?". Ho risposto io: la terra. Ma quello ha insistito…».
E ridono, Enzo e Alessandro Cucchi: «Sono parole truccate e ispirate che conservano solo l’odore di un significato». Alessandro ha trent’anni, è laureato in Biologia marina, gioca al rugby, mi mostra un piccolo e bel libro su Tano Festa che ha pubblicato con Nero: «Faccio il segretario di mio padre».
Ha ancora la sua stanza nella casa del babbo, «una ex falegnameria» in via dell’Orso, a Roma. «Qui abitava la famiglia Ferrara. Giuliano lo ricordo da bambino, una bella creatura umana». Non c’è l’aria del rifugio, pochi quadri alle pareti, anche il Lenin «che mi diede Andy Warhol» sta, discretamente, in un angolo.
Mangiamo all’Orso 80. A tavola siamo cinque e l’intervista diventa un Hellzapoppin': «Il maestro ha ordinato amatriciana per tutti», dice il cameriere. E Cucchi: «Bisogna fidarsi degli artisti, ma anche dei carciofi e del Bruciato di Antinori». È lungo e, a 65 anni, ancora magro. Goffredo Parise scrisse che «ha la faccia da matto e la testa di vitello… e la sua pittura ricorda quella dei pazzi di Verona». Somiglia ai ritratti che ne fanno: «Non farò mai il mio autoritratto. L’idea mi dà le vertigini».
Da un po' di tempo non ha più la sigaretta in mano. «Ho dovuto fare un piccolo intervento», dice toccandosi sotto il maglione a collo alto. «Tu cerchi l’imbroglio nell’arte. E i medici? Almeno noi sappiamo quel che facciamo».
Davvero tu capisci i tuoi quadri? «Vai a dire a Paolo Uccello che non capiva quello che faceva». Ma no, voglio dire che non si chiede a Maradona di spiegare il suo gol. «Nel gol di Maradona c’è tutto il calcio». Appunto, ma non la sua spiegazione. Altrimenti bisognerebbe chiedere a una mela di scrivere un trattato di botanica. «Vuoi dire che io sono una mela?».
E finalmente la risata non è più il borbottio del contadino di Morro d’Alba. «Solo gli artisti sanno ridere dell’arte».