Recensioni / Topo, topo senza scopo

Nel centenario della nascita, torna Toti Scialoja, con la riproposizione di un suo quadernetto di disegni e nonsense: gli animali sono al centro delle poesie. E una biografia lo colloca al posto giusto nel Novecento

[…] Molte annate e molte date, fin qui. Perché, se nel caso di Scialoja correnti e tendenze non soccorrono, la cronologia viceversa è essenziale. Lo testimonia la precisione con cui calligrafò – con le biro quadricolori che prendevano proprio allora a circolare: blu, rosso, nero, verde – il colophon del quadernetto familiare che intitolò Tre per un topo: «Sessanta poesie con animali, cominciate a scrivere nel 1961 per James Demby, che si è fatto grande – ora raccolte e illustrate per Barbara e Alice Drudi, che sono ancora piccole, nell’agosto 1969 a Roma, ispirato dalla sua Gabriella». I nomi dei suoi tre nipotini, di sua moglie, e basta. Il solo commento possibile sarà leggerne una: «L’uccello nero / salta leggiero, / si chiama merlo / senza saperlo». Leggiero, con grafia anticata; perché «Scialoja riesce a essere nello stesso tempo uno scrittore “barbaro”, dotato d’una grande capacità di donare evidentia alle immagini delle sue parole, e un classicista con un fortissimo senso della tradizione e delle convenzioni di genere». Il commento è di Eloisa Morra, la giovane studiosa autrice del ritratto critico Un allegro fischiettare nelle tenebre: che sarà il migliore accompagnamento per questi nonsense con animali e per chiunque desideri inseguire la biografia intellettuale di questo pittore-scrittore nel centenario della sua nascita. Ma andiamo con ordine, e guardiamo un’altra poesia: «Ieri al crepuscolo, tra il lusco e il brusco, / vidi un minuscolo topino etrusco».

[…] «A tentoni, ma con infallibile istinto, Toti afferra il suo destino» scrive Morra in una sintesi che corrisponde alla seguente dichiarazione d’autore: «il nonsense mette la parola alla prova del nulla, a confronto con il suo mentito significato». Per tutta la sua vita, fino ai tardi esperimenti con quelli che volle chiamare «esametri», Scialoja praticò la poesia come il modo per restituire alla parola pulsazione, dopo averle tolto peso. Può darsi che si possa dire qualcosa di analogo per la sua pittura, ma per accertarsene è opportuno ricorrere al Fischiettare di Morra: più che una «biografia disorientata», come l’autrice l’ha definita sull’esempio di Barthes, è una biografia snodata: sciolta ed elegante nel procedere, esatta nel suo inscriversi nello spazio-tempo, limpida e cordiale nel tono; un libro dove la descrizione decolla sempre in interpretazione, animato dallo stesso sentimento che Scialoja diceva di provare verso i suoni: «una grande, una smaniosa simpatia per le parole, quasi che le parole fossero spiragli di luce». Gli esordi di Scialoja come narratore e come critico si trovano così retrodatati di più anni, tra il ’35 e il ’37, mentre emerge l’importanza di letture eclettiche, da Trilussa a Stevenson. Negli anni della sua prima giovinezza sotto il fascismo, Scialoja allargava le sbarre di una gabbia politica, morale, perfino acustica. E il magistrale confronto Mino Maccari vs. Toti Scialoja assume il valore di uno spartiacque – stilistico, civile, antropologico – tra due idee dell’Italia e del modo di esprimerla: due idee che nel 1941 si trovarono a coabitare su una stessa pagina di una stessa rivista, «Il Selvaggio» fondato da Maccari.