Recensioni / Una biografia di Enzo Cucchi che diventa quasi un romanzo giallo

Chiunque si aspettasse di trovare in Vita sconnessa di Enzo Cucchi una biografia del pittore transavanguardista resterebbe deluso. Perché Cucchi essenzialmente in questo libro è come un fantasma, quasi il più classico dei coinvitati di pietra. Manca, eppure aleggia continuamente nell'aria mentre l'autore Carlos D'Ercole si muove esattamente come un bravo detective, interrogando come testimoni artisti (Luigi Ontani, Francesco Clemente, Mimmo Paladino, Miltos Manetas), mercanti e galleristi (Emilio Mazzoli, Joseph Helmann, Paul Maenz, Bernd Klüser), e intellettuali (Salvatore La Cagnina, Jacqueline Burckhardt), amici e complici più o meno stretti di Cucchi – e ovviamente anche sua moglie, Brunetta Antomarini: ora li mette alle corde, prova a farli cadere in contraddizione, cerca di continuo conferme o smentite delle loro deposizioni; ora li rassicura, dissimulando il suo interesse con domande apparentemente fuori tema o su episodi della loro stessa vita professionale, per poi ancora incalzare nel tentativo di ricostruire i fatti.
Tanti i personaggi che compaiono lateralmente qui e là nei racconti (Maurizio Cattelan, Lucio Amelio, Luigi De Ambrogi, Pio Monti, Basquiat, Andy Warhol, etc.), e tantissimi gli aneddoti.
Questa sorta di indagine finisce per restituirci una contro-storia divertente e illuminante di quella scena artistica a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, e oltre, che conoscevamo in modo leggermente diverso. Innanzitutto si spazzano via falsi miti sulla creazione della Transavanguardia, ridimensionando il ruolo demiurgico di ABO, che comunque ebbe il merito di fiutare le possibilità di quella congiuntura in cui galleristi e artisti cercavano di riappacificarsi con il mercato, dopo anni di politica anti-mercato perseguita dall'arte concettuale. Una transavanguardia alla fine utile, sì, ma troppo presto rivelatasi scomoda gabbia tanto da pianificare varie exit strategies, come ad esempio la tavola rotonda organizzata nel 1986 dal periodico «Parkett» della Burckhardt, in cui Cucchi cercò di recuperare una sua individualità post-transavanguardista connettendosi con il poverista Jannis Kounellis, Anselm Kiefer e Joseph Beuys.
E intorno ci sono storie di rivalità, come quella tra lo stupendamente senza peli sulla lingua Emilio "milione” - così era soprannominato Mazzoli per l'abitudine di scendere a Roma con un milione da investire in opere d'arte - e il gallerista svizzero Bruno Bischofberger, oppure quella tutta marchigiana tra Gino De Dominicis e lo stesso Cucchi. Ma emergono anche forti legami umani, come quello tra Mario Schifano e Alighiero Boetti, accomunati dalla passione per le sostanze psicotrope, oppure quello tra lo stesso Cucchi e Ettore Sottsass, molto stimato dal primo nonostante la sua idiosincrasia per gli architetti.
E poi necessariamente, tra un diversivo e l'altro, che poi diversivi non sono, l'investigazione si stringe sul Cucchi, sul suo personaggio così (finto-?)romantico, ribelle, bugiardo e, come ogni vero romantico che si rispetti, autolesionista (come dimostrò alla mostra del 1986 al Guggenheim a New York, dove preferì andare contro le aspettative americane giocandosi quella che sarebbe potuta essere la sua piccola apoteosi).
Fotografie in bianco e nero scandiscono il testo, come foto di scene del crimine, o prove indiziarie, in molte delle quali appare Cucchi, come spaesato, come se fosse passato lì per caso, come se ignorasse l'apparecchio fotografico –dove gli altri, compreso un giovane ABO, ne erano visibilmente succubi –  lasciandoci sempre col dubbio se ci fosse o ci facesse («Ma Enzo ci è o ci fa?» chiede a un punto il detective D'Ercole alla moglie di Cucchi, Brunella).
E alla fine – allerta spoiler, non leggete oltre se non volete rovinata la sorpresa – il cerchio si stringe, Cucchi si palesa. Risposte secche, lucide, beffarde. Non dice troppo nè troppo poco, racconta come se niente fosse. Poi sparisce, «sicuramente il migliore».