Nel ‘500, proprio quando la politica registra un ulteriore indebolimento
delle istituzioni universali del papa e dell’imperatore (significativa è
in tal senso anche la parabola di Carlo V), si consolida una nuova
universalità: il diritto internazionale. Lo ius inter nationes è il
diritto che esiste come relazione fra stati che non riconoscono sovrani a
loro superiori.
In uno scenario nel quale le monarchie assolute sono sempre più le
protagoniste e le conquiste coloniali rivelano nuovi popoli e civiltà,
il nascente diritto internazionale può essere fondante soltanto se esso
riesce a basarsi su una dimensione che va oltre la civiltà europea e
l’ortodossia cristiana. Tale nuova dimensione universale è quella di una
natura comune che è umana perché capace di vita politica. Vitoria,
Grozio, Gentili, che sono ritenuti essere tra i fondatori del diritto
internazionale, nei vari temi che affrontano non a caso passano
attraverso la questione filosofica e teologica, prima che giuridica,
della natura politica dell’umanità.
Tutti i popoli, anche quelli non europei e cristiani, sono o no umani
perché capaci di organizzarsi o di essere organizzati in comunità
politiche? Questa è una delle domande fondamentali alle quali dà diverse
risposte il nascente ius inter nationes e di cui è eco la celebre
disputa tra Las Casas e Sepúlveda sulla natura politica o la naturale
schiavitù degli indios. È in questo nuovo contesto del diritto
internazionale che si colloca anche la vexata questio della guerra
giusta affrontata da un altro protagonista dello ius inter nationes, il
gesuita Francisco Súarez (1548 – 1617) nel De bello, parte del più ampio
De triplici virtute theologica pubblicato postumo nel 1621. Curato in
un’ottima edizione con testo a fronte e saggio introduttivo da Aldo
Andrea Cassi, Sulla guerra (Quodlibet, 2014) costituisce una delle più
dettagliate formulazioni del bellum iustum. Da quella che oggi chiamiamo
– con sconsolante ossimoro – guerra umanitaria, alla violenza privata
del duello, alla rivoluzione e guerra civile – definite da Súarez casi
di «sedizione».
L’autore delle Disputazioni metafisiche e del Trattato delle leggi e di
Dio legislatore anche nel De bello si ricollega alle posizioni
aristoteliche elaborate da San Tommaso, ma con una più decisa intenzione
di attribuire al politico la funzione di elemento essenziale che
definisce ontologicamente l’umano. Prima di ogni forma di civiltà e
religione, per Suarez è il politico l’elemento universale del genere
umano. Ed è per questo motivo che la guerra non può essere un mezzo
lecito per esportare la civiltà ai selvaggi e la «vera religione» agli
infedeli. Per Súarez addirittura «ci sono molti infedeli meglio dotati
che certi cristiani e più disposti verso la vita politica». Nel caso in
cui l’umanità politica non fosse rispettata, persino i non cristiani
avrebbero diritto di avvalersi della guerra contro i cristiani. È ciò
che ad esempio accade nella storia raccontata dal film Mission che vede
protagonisti una comunità di indios e due gesuiti che si scontrano con i
cristiani civilizzatori.
Non alla fede e alla civiltà, ma alla violazione dell’umanità
(l’aristotelica vita capace di politica) Sùarez ristringe la possibilità
della guerra giusta – benché egli continui a dare una sfumata
preminenza ai prìncipi cristiani nell’amministrarla. E tuttavia anche su
questo è netta la distanza di Sùarez da chi, come il maestro Vitoria,
legittima alla guerra umanitaria soltanto i sovrani cattolici. La
definizione politica dell’essenza umana da parte di Súarez induce a
considerare con più pregnanza il fondamento politico dell’interscambio
fra antropologia e legge – interscambio avversato oggi dalla
neutralizzazione tecnico-economica della governance che spoliticizzando
l’umano lo induce a riconsegnarsi a identitarismi escludenti e
aggressivi mai del tutto sopiti.