Recensioni / Mosca-Petuskì

La Mosca-Petuskì era una linea dove nessuno aveva il biglietto, perché il controllore capo Semenyc, ci informa l'autore, preferiva farsi pagare in alcol. "In tutta la Russia i camionisti si facevano dare dagli autostoppisti un copeco al chilometro, Semenyc prendeva una volta e mezzo in meno, un grammo a chilometro". Era pure una tradizione sovietica, quella di misurare gli alcolici in termini di peso, piuttosto che di capacità. "Se, per esempio, andavi da Cuchlinki a Usad, distanza novanta chilometri, versavi a Semenyc novanta grammi e continuavi il viaggio beato e pacifico, stravaccato sul sedile come un commerciante". Un'innovazione che, annota sempre Erofeev, "aveva rafforzato il legame tra i controllori e le masse, ne aveva abbassato il prezzo, l'aveva semplificato e umanizzato". Solo che Venedikt Erofeev non pagava in quel modo. E non perché fosse astemio, ma perché, al contrario, alcolici di ogni tipo li trangugiava senza lasciarne traccia. Dalla birra al profumo, passando per la vodka e per vari tipi di imitazione locale dei più famosi vini occidentali. Il controllore lo pagava invece raccontando storie. E' dall'impasto di bevute e racconti che è nato questo "poema ferroviario": una lunga estasi superalcolica i cui capitoli sono scanditi dalle stazioni, attraverso una tratta da centotrenta chilometri che potrebbe anche essere vista come una rilettura dell'Ulisse" di Joyce applicata all'homo sovieticus". Verso la fine c'è perfino una specie di Sfinge, che fa all'improbabile Edipo perennemente brillo domande da quiz televisivo demenziale.
Nelle varie visioni etiliche, forse la più memorabile è quella sui protagonisti di un famoso gruppo scultoreo allegorico alto sedici metri, "l'operaio con il martello e la contadina con la falce", che si animano e marciano verso l'autore, sogghignando. "E l'operaio mi aveva colpito con il martello sulla testa, e poi la contadina con la falce sui coglioni". Si capisce perché le autorità sovietiche vietarono questo libro, ma forse è meglio dire che Erofeev non ci provò neanche, a farselo pubblicare per via canonica. Egli stesso era un personaggio a dir poco irregolare. Nato nella penisola di Kola nel 1938, in una "Breve autobiografia" ricordava di essere stato facchino, manovale, muratore, fuochista, portiere, addetto al recupero delle bottiglie vuote di vino, trivellatore in una spedizione geologica, guardia armata, bibliotecario, componente di una spedizione scientifica oltre il circolo polare artico, direttore di un deposito del cemento per la costruzione di una strada, lavoratore nel sistema delle comunicazioni. Ma soprattutto disoccupato senza fissa dimora, in un paese dove ufficialmente tale categoria non esisteva. Il "poema ferroviario" uscì nel 1969 come samizdat: quel tipo di editoria parallela, macchina da scrivere e tanti fogli di carta carbone, che durante il periodo sovietico pubblicava non solo i dissidenti dichiarati, ma anche coloro che, come Erofeev, sarebbero stati probabilmente anarchici sotto ogni tipo di regime. Solo nel 1973 sarebbe arrivata una prima edizione formale, in Israele. In compenso, il traduttore e curatore, Paolo Nori, ricorda che all'epoca del suo primo viaggio a Mosca, nel 1991, a poche decine di metri dalla Piazza Rossa c'era "una specie di libreria volante e informale che si caratterizzava, più che per il fatto di vendere un libro solo, pile e pile di `Mosca-Petuskì', il poema ferroviario di Venedikt Erofeev". L'autore era morto l'anno prima, riuscendo nell'impresa di uscire di scena appena prima della fine dell'Urss. Per lui, ben consapevole dei quaranta modi che i russi hanno per dire "ubriacarsi", l'alcolismo era stato un modo per diventare il lucido profeta della vacuità dell'Unione sovietica.

Recensioni correlate