Recensioni / Le favole dipinte. Ruggero Savinio al Forte Malatestiano

La grande mostra antologica di Ruggero Savinio alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, nel 2012, aveva un finale “aperto”: le ultime battute di quella esposizione, infatti, accennavano rapsodicamente agli esiti recenti della sua ricerca, lasciando preludere l'attività di un pittore pronto a dare nuova vita a nuovi sviluppi al proprio linguaggio espressivo. Ne rende conto chiaramente la grande mostra curata dallo scrittore Clio Pizzingrilli presso il Forte Malatestiano di Ascoli Piceno, accompagnata da un piccolo ma raffinato catalogo edito da Quodlibet. Il piccolo libro, che ha il merito di sfuggire alla retorica ostentazione vacua e celebrativa dei grandi cataloghi di mostre, offre, grazie al densissimo saggio del curatore e agli interventi di Giorgio Agamben e dell'artista stesso, un impegnativo e penetrante commento alle opere, con tutte le chiavi fondamentali per leggere la pittura di Savinio e fare un passo avanti in una comprensione più profonda del senso storico di questa ricerca.
Da sempre Savinio, artista «sobriamente ctonio e severamente celeste» secondo la bella definizione di Agamben, è pittore di racconto, che concepisce il quadro come luogo di una rappresentazione che ha per tema principale la figura. Non andrà dimenticato, a tal proposito, che questi è fra i giovani che a cavallo fra anni Cinquanta e anni Sessanta avevano cercato una nuova via per la rappresentazione delle cose del mondo, raccogliendo quanto di utile poteva venire dalla pittura di segno, e soprattutto la grande libertà di rapporto con la tela che veniva da una spontanea esternazione istintiva, e riportandolo a temi propriamente narrativi. Nel fare questo, però, Savinio aveva tenuto fin da subito una linea intimista e raccolta, concentrata in una dimensione autobiografica ed esistenziale e meno proiettata verso i temi della contestazione: la deformazione della figura che mostrasse (o ostentasse?) lo strazio dell’uomo moderno non è nelle sue corde. Del resto, mentre segue le correnti del proprio tempo, Savinio ha anche, per eredità di famiglia e per attrazione personale, una complessità culturale e di pensiero, di cose viste e libri letti, che raramente si trovano nei pittori della sua generazione. E questo non vale solo per il fatto che Savinio, come suo padre e suo zio, è un pittore che scrive, ma perché egli è un intellettuale in senso pieno, anche grazie a una formazione in un contesto eccezionalmente sollecitante come raramente accade, e perfettamente cosciente dei problemi messi in campo dalla propria pittura. Ma da questo Ruggero Savinio non si è lasciato sopraffare (e quando cita invenzioni figurative di suo padre Alberto, come ne Il principe senza paura del 2013, lo fa come palese omaggio), perseguendo da sempre una propria indagine ben lontana da intenti metafisici e calata, piuttosto, nei problemi del visivo. Come annota Pizzingrilli in catalogo, in questa mostra si ha a che fare con lo «spettacolo della pittura». Sono le parole dell’artista stesso a instradare verso una lettura di questo genere. In uno scritto recente intitolato Noia, pubblicato in catalogo, Savinio parla infatti esplicitamente di «un'idea di pittura così identica a se stessa», e nelle stesse pagine aveva spiegato che «ridotta all'essenziale, la pittura non avrà niente da dire tranne che se stessa, senza per questo affermare un suo qualche valore specifico, come nell'estetica puro-visibilista». Pertanto, pur «compromesso con le cose» come scrive Pizzingrilli, per Savinio la pittura ha soprattutto un valore in quanto tale, o meglio per le proprie qualità ottiche e visive, e gli oggetti, soprattutto le figure, sono un pretesto per un brano di pittura che emoziona prima di tutto l’occhio proprio per la sollecitazione che gli trasmette la preziosa trama di segni. Per questo la figura affonda entro un flusso continuo: affiora dalla trama dei segni ma non ne esce distintamente, o meglio viene catturata dalla stessa tessitura pittorica. Era particolarmente evidente, un effetto del genere, nei quadri realizzati fino alla fine degli anni Novanta, fatti di piccoli tocchi giustapposti, come una pioggia cromatica depositata sulla tela, che dichiaravano esplicitamente il desiderio di un quadro che, pur senza negare la profondità prospettica della rappresentazione, si risolvesse su un piano squisitamente pittorico: ogni tocco di colore è poggiato sulla superficie della tela e si mostra come tale, e solo dalla ricomposizione di questa trama emerge improvvisamente l’immagine.
Per questo, come annota Agamben in catalogo, «le figure di Ruggero Savinio registrano il tempo della loro emersione, perché sono esse stesse il luogo di un incessante conflitto col tempo e con la storia, da cui ostinatamente si liberano e in cui altrettanto tenacemente riaffondano». In questo senso, seguendo le fitte note di Pizzingrilli, «l’astrattismo è tutto dentro la pittura di Savinio, benché, evidentemente, non si possa considerare Savinio un pittore astrattista; lo è nella misura in cui esibisce la negatività della materia, critica la posizione dell’ente nella sua datità statica, mostra la lacerazione, causata fondamentalmente dal lavoro quale ormai unica attività istitutiva della mondanità, fra l'essere oggetto dell'oggetto e il suo essere cosa». Il soggetto, in fondo, è e resta un oggetto pittorico raffigurato sul piano, facendo richiamare (è sempre Pizzingrilli che scrive) il problema della "pura visiblità": «l’oggetto, a partire alla nozione di pura visibilità, è assunto ontologicamente, nella connessione con il soggetto, la sua apparenza è ritenuta conveniente alla rappresentazione in quanto essenteposto, indipendente dalla posizione nella quale era originariamente, distinto dal luogo della sua generazione».
Non andrà trascurato, però, che questo risultato viene da una assidua pratica del disegno. I pochi esempi presentati in mostra illustra chiaramente il procedimento dell’artista con un segno circolare a gomitolo che segue i volumi. Il suo, infatti, è un tratto insistito, che copre tutto e riempie tutto con ossessione: un passo in più e si arriva al monocromo nero. Ma fermandosi per tempo, la figura affiora. Allo stesso modo egli si approccia alla pittura, anche superata la maniera a piccoli tocchi in favore di una più libera gestione della materia, bagnato su bagnato, che rende sensuale quel groviglio fluido, dato da una rotazione di polso, che nel fluire diventa figura.
Questo, naturalmente, non vuol dire negare il soggetto, anzi l’artista mostra una particolare attenzione alle storie che racconta, attingendo anche dai miti o, nel secondo decennio degli anni Duemila, alle favole dei fratelli Grimm; oppure facendo ricorso all’arte della citazione o del d’Aprés. Fra le opere più recenti, infatti, non mancano omaggi ai grandi maestri, ritraduzioni nella propria maniera di opere di Raffaello, di Guido Reni, una piccola e preziosa riflessione su un’Annunciazione di Beccafumi. È un tema di omaggio, ma non solo, come avverte l’artista stesso in Noia: «travestendomi da monaco, vado riempiendomi di sentimenti morali. Intendo, moralità della pittura. Non potendo dipingere, se non come esercizi o sporadici omaggi ad opere del passato, quadri sacri, m’immagino una qualche sacralità della mia pratica ecente di una pittura che vuole rifiutare ogni metafora, poeticizzazione, ecc., e confinarsi nella rappresentazione di oggetti reali, paesaggi, figure, nature morte». L’artista è cosciente che il pittore moderno non deve fare i conti, come il maestro antico, con un tema assegnato, con un “programma” da visualizzare: per lui, un tema sacro è, spesso, una rivisitazione di quadri del passato. E quei motivi narrativi, in fondo, sono brani di pittura con cui misurarsi come insegnamento.
Ma alla “pura visiblità” Savinio arriva seguendo una traiettoria tipica degli artisti del suo tempo.
Egli appartiene a una generazione di pittori che si è molto interrogata sulla lezione dei maestri dell’Ottocento per rimontare poi a momenti più remoti della storia della pittura. Per loro questo era un passaggio necessario per elaborare una grammatica del visivo in termini di pura immagine ottica.
Gli artisti che Savinio copia deliberatamente, per paradosso, sono pittori che ha amato, ma forse non sono quelli la cui lezione lo hanno pervaso più profondamente, e verso cui ha sempre rivolto un dichiarato debito di riconoscenza: Bonnard, oggetto di una mostra rivelatrice curata da Franco Russoli nel 1955; il vecchio Tiziano, Rembrandt, Turner. In alcune pagine di questo libretto l’artista riflette anche sul confronto Ingres-Delacroix: il disegno contro la pittura, secondo uno schema classico; ma Savinio capisce che c’è molta pittura “pittorica” nel disegno di Ingres quanto c’è disegno nella pittura di Delacroix. Su queste domande Ruggero Savinio e molti pittori della sua generazione, specialmente i suoi amici degli anni milanesi, si sono interrogati costantemente, fino a farne un motivo di orgoglio e di identità artistica. Non a caso, quando questa esigenza si era fatta più urgente, questi pittori avevano dato vita ad una mostra intitolata, significativamente, L'opera dipinta: a chi dichiarava la morte della pittura, e a chi ne salutava il ritorno da parte di pittori più giovani, ma in una declinazione sciatta e volgare, questi rispondevano con la difesa di un magistero nobile che non dimenticava la continuità e la trasmissione di una tradizione. A quel punto, come scrive Savinio stesso, la pittura può collocarsi, almeno per i pittori, «in un luogo temporale a parte».